Manca una qualsiasi programmazione mentre la montagna di fondi viene destinata a politiche contraddittorie. Il vero nodo, però, resta il blocco della pesca per 45 giorni all’anno. Per gli esperti serve solo come scusa a elargire soldi, senza nessun effetto sul ripopolamento marino. I dati parlano chiaro: il 95% degli stock ittici del Mar Mediterraneo è a rischio, minacciato dal sovrasfruttamento e senza possibilità di recupero, a meno che nei prossimi 5 anni lo sforzo di pesca non diminuisca almeno del 45-50%. Ci si prepari quindi a mangiare meduse, perché sembra che solo quelle siano in aumento, mentre i pesci comunemente venduti al mercato, sogliole e merluzzi in primis, nelle reti sono sempre meno e di taglia sempre più piccola.
L’allarme. A dare l’allarme è lo Stecf, il Comitato tecnico, scientifico ed economico della pesca europea, che ha da poco presentato i drammatici risultati delle ricerche svolte nel Mediterraneo.
Tempo di bilanci dunque. Infatti il 23 ottobre a Bruxelles si è tenuta la votazione per il regolamento del nuovo Fondo europeo per la pesca e gli affari marittimi, che dal 2006 fa parte delle misure destinate alla salvaguardia dell’ambiente. Se il futuro delle risorse ittiche è incerto, l’unica cosa che invece risulta chiara è il fallimento delle politiche nazionali ed internazionali. L’analisi economica su base europea mostra infatti come dei quasi 4,5 miliardi messi in campo nel settennato appena finito – ulteriormente incrementati di 2 miliardi per il 2014/2020 – meno dell’1% sia stato investito in misure per la sostenibilità ambientale.
L’Italia non è da meno, anzi. Nella revisione eseguita dalla Corte dei Conti, sul periodo 2011 e primo semestre 2012, non risulta alcun investimento nel famoso Asse IV del Fep, quello che doveva regolare lo sviluppo sostenibile delle zone di pesca, con un totale delle spese effettuate uguale a zero. A conti fatti dei quasi 900 milioni di euro totali del fondo, cofinanziato in parte dall’Europa e in parte da Stato e Regioni, poco o nulla è servito per raggiungere l’obiettivo dello “sfruttamento sostenibile dei mari”, mentre il restante, sempre secondo la suddetta relazione della Corte dei conti, langue in attesa di essere speso. Gli impegni di pagamento su base regionale infatti non raggiungono il 45%, mentre l’effettiva realizzazione media non sfiora neanche il 23%, con una ripartizione del 20,8% per le regioni in obiettivo di convergenza (Basilicata, Campania, Calabria, Puglia e Sicilia) e 27.1% per quelle fuori obiettivo.
Quarantacinque giorni di stop. Sono in molti a denunciare le mancanze di una gestione inefficiente e gli sprechi di denaro, fra questi le associazioni di categoria e gli ambientalisti, che puntano il dito rispettivamente sulla pesantezza della macchina burocratica gli uni, e l’eccessivo sforzo di pesca ancora in atto gli altri. Nella giungla dei regolamenti una delle norme su cui perennemente si scontrano le incongruenze del sistema è il fermo biologico obbligatorio. Introdotto per salvaguardare i pesci durante il periodo giovanile, obbliga a uno stop forzato di 45 giorni consecutivi i pescherecci che praticano strascico o volante. Dopo anni, nonostante il periodo di attuazione sia teoricamente stabilito su base scientifica, il mese continua a cambiare (agosto, settembre, ottobre), mentre la compensazione ai pescatori per l’inattività forzata arriva attraverso la cassa integrazione in deroga. Quest’anno lo stanziamento è stato di 30 milioni, impegnati con forte ritardo per coprire le richieste d’indennizzo del 2012 e 2013.
Fallimenti a catena. I ritardi e la mancanza di una cassa ordinaria, sono solo alcune delle cause di fallimento di molte imprese. I dati riportati da Lega Pesca parlano di una moria generale nel settore, che di fatto sta attraversando una crisi strutturale: nel decennio 2000-2010 la produttività ha registrato un calo del 48,84%. I ricavi si sono contratti del 31%, a fronte di un aumento dei costi di produzione del 240%, su cui incide per la maggior parte il carburante. Nel 2010 il deficit della bilancia commerciale ittica è stata superiore a 3,5 miliardi e in buona sostanza oggi si spendono 12 milioni al giorno sui mercati esteri per l’import di prodotti ittici.
Situazione complessa al ministero. Secondo Ettore Ianì, presidente Lega Pesca, il fermo potrebbe essere uno strumento efficace per arginare queste perdite, sebbene sia il punto dolens su cui non si riesce a trovare un accordo: “Quando si parla di fermo tutti perdiamo la nostra innocenza. Ognuno ha qualcosa da difendere, a prescindere dallo scopo per cui viene utilizzato. Bisogna aggiungere che da oltre un anno il ministero è vittima di una questione giudiziaria. Abbiamo un direttore generale della pesca ad interim e un’organico ridotto all’osso. Questa sorta di inter regno in cui siamo bloccati rende difficile portare avanti i lavori”. Una delle più gravi conseguenze dell’arresto di alcuni dirigenti del ministero dell’Agricoltura avvenuto nel 2012 con l’accusa di corruzione – fra cui Giuseppe Ambrosio, capo della segreteria del sottosegretario alle Politiche agricole Franco Braga, insieme a Francesco Saverio Abate, ex direttore enerale Pesca marittima e acquacultura nonché Autorità di gestione del fermo pesca – è stata il blocco dei fondi, superato solo a giugno di quest’anno. Tutt’oggi però la situazione interna al ministero continua a essere nebulosa, con ruoli vacanti o ad interim in attesa di essere assegnati.
Diminuire i giorni di pesca. Al di là delle questioni giudiziarie però le misure fin qui adottate restano insufficienti, come dimostrano i fatti. Fra le proposte degli ambientalisti la creazione di una rete di riserve marine “no take, no dump” (niente pesca e né inquinamento), trova un largo consenso anche fra gli addetti ai lavori. Il giogo dell’assistenzialismo forzato a cui costringe il fermo biologico infatti non è gradito nemmeno ai pescatori che anzi, da più marinerie, si fanno promotori di proposte alternative. Da San Benedetto del Tronto è stata persino inviata una lettera al ministro De Girolamo per chiedere di diminuire i giorni di pesca settimanali e creare di zone di ripascimento, tuttavia dal ministero, almeno finora, nessuno sembra in grado di dare una risposta.
Assistenzialismo e scarsa programmazione. Alessandro Giannì, responsabile della Campagna mare di Greenpeace, spiega che “tecnicamente il fermo è difficile da definire, per il semplice fatto che la pesca è multispecifica e le specie si riproducono con modalità differenti. Magari in quel periodo evito di prendere i giovanili della specie A, ma appena ricomincio catturo quelli della specie B. Quel che cambia è solo che dopo un mese prenderò triglie di 1 cm più grandi. Il fermo biologico, come attualmente praticato, è uno strumento che serve solo a dare soldi extra ai pescatori”. La mancanza di una cassa integrazione ordinaria infatti ha portato finora a sospettare che i fondi altro non fossero che una forma di ammortizzatore sociale camuffato, perfettamente integrato in un sistema di finanziamenti europei. A questo proposito Franco Andaloro, dell’Ispra di Palermo e membro del Cnr, parla di un vero e proprio doping nell’area siciliana. “Gli effetti di questi finanziamenti sono stati devastanti, perché hanno alterato il sistema senza portare un reale miglioramento”, racconta “se è vero come è vero che nessun pescatore italiano ha avuto tanto denaro quanto un pescatore siciliano, e se è vero che la pesca siciliana è in crisi, allora è certo che qualcosa non ha funzionato”. “Gli assessori del passato hanno fatto la strada verso Bruxelles come un Cammino di Compostela, non chiedendo progettazione, ma deroghe o proroghe, senza considerare i dettami della pesca scientifica. Questo in realtà denota un abbattimento delle posizioni della politica nei confronti di grossi depositi elettorali”.
Il caso della Sicilia. Il boom dei pescatori siciliani avvenuto negli anni ’80, che da circa settemila arrivarono a quasi ventimila nel corso di un mese, è imputabile proprio alle compensazioni economiche concesse per il fermo, allora molto lusinghiere. “Da quel momento in poi” continua Andaloro “la situazione è diventata estremamente complessa, tanto da essere definita virtuale: e cioè mentre pescatori registrati come tali nella realtà non pescano, molti altri, che pescatori non sono, escono regolarmente in barca e vendono il proprio prodotto”.
La piaga dell’illegale. La pesca illegale però non è una piaga solo siciliana. Diffusa ovunque e ad ogni livello, non esistono leggi o controlli efficaci per arginare i suoi danni. Spesso praticata sotto forma ricreativa, può fruttare anche più di 4.000 euro al mese con una semplice barchetta da diporto. “In alcune aree moltissimi hanno il doppio lavoro”, racconta Andaloro “magari sono pensionati o parenti di pescatori, oppure sono ‘professori’ che arrotondano così lo stipendio. Ad esempio con 10 chili di totani presi in una sera si fanno anche 200 euro, quindi si può anche arrivare a quadruplicare lo stipendio”. Come se non bastasse i professionisti che vengono “beccati” a pescare di frodo, magari con reti derivanti smisurate (che arrivano anche a essere lunghe 20 chilometri, mentre il massimo consentito sarebbe di 2 chilometri e mezzo a parte una sanzione economica, non subiscono alcun procedimento disciplinare, riuscendo comunque ad accedere ai fondi messi a disposizione per il rinnovo degli strumenti, fra cui le stesse reti.
Soldi alla demolizione delle barche e alla loro ricostruzione. Aberrazioni che, secondo la futura riforma in senso restrittivo del Regolamento comunitario 1224/2009, dovrebbero essere eliminate, ma che sono state finora all’ordine del giorno. Le contraddizioni non finiscono qui e se finora sono stati stanziati fondi per la demolizione dei pescherecci (che ha provocato negli ultimi sette anni un’ondata di fuoriuscite dal settore), è attualmente al vaglio la proposta di introdurre nel Feamp (Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca). Un vero controsenso su cui Domitilla Senni, di Ocean2012, risponde così: “Sarebbe molto più utile avere nuovi stanziamenti per i controlli e la raccolta dati. Contro questa proposta si è mobilitano Ocean2012, Wwf, Greenpeace, Oceana e BirdLife, e tutta la galassia delle organizzazioni ambientaliste attive sulla riforma della politica comune sulla pesca”. E mente a Bruxelles gli studi presentati coprono poco più del 60% degli stock ittici europei, l’area meridionale del Mediterraneo rimane ancora inesplorata, benché molto frequentata dalle marinerie nostrane, oltre a quelle tunisine, algerine, marocchine e via dicendo. Come se la stiano passando oggi i pesci da quelle parti non è dato saperlo, possiamo solo sperare, come si augurano i ricercatori dello Stecf (il Comitato tecnico, scientifico ed economico della pesca che fa capo alla Ue), che stiano tutti bene.
Repubblica – 5 novembre 2013