Il SIVELP Sindacato dei Veterinari Liberi Professionisti da tempo si batte contro il nuovo regolamento sul Farmaco Veterinario proposto dall’Unione Europea. Esso impedisce al Medico Veterinario la libertà di prescrizione del Farmaco più efficace nella cura del proprio paziente e meno oneroso per il suo proprietario, privilegiando invece la tutela degli interessi dell’industria.
Nel resto d’Europa la norma è necessaria perchè il farmaco è venduto in buona parte anche dai veterinari e sarebbe logico non commercializzassero prodotti a uso umano. L’Italia è diversa, perchè il farmaco non lo vendono i veterinari (se non per inizio terapia), esattamente come i medici non vendono farmaci ai loro pazienti.
Si tratta di gestioni riservate generalmente alle farmacie, comunque diverse dalle regole di buona parte della UE. Se dobbiamo “ribaltare”, ribaltiamo tutto e non una parte.
La normativa attualmente in vigore e il nuovo regolamento (che da questo punto di vista non presentano differenze sostanziali) hanno una ragion d’essere per i trattamenti farmacologici degli animali destinati alla macellazione e all’alimentazione umana, nell’ottica di tutelare il consumatore dall’accidentale ingestione di residui dei medesimi trattamenti.
Evidentemente tale preoccupazione risulta del tutto infondata quando i farmaci sono destinati all’impiego sugli animali d’affezione, che costituiscono ormai in Italia la metà del mercato -in termini economici- del farmaco veterinario.
Chi produce e vende si attiene alle regole che valorizzano il mercato. I professionisti dovrebbero attenersi a dati medico-scientifici, la cui applicazione non è corretto sia legata a business esterni.
Al veterinario risulta utilissimo potersi avvalere per la terapia di farmaci appositamente studiati per facilitarne la somministrazione agli animali e per rispondere ad esigenze peculiari, ma la produzione di tali medicinali è ragionevolmente sostenibile solo se l’azienda prevede di poterne poi vendere un sufficiente numero di pezzi.
Capita così che prodotti come gli antiparassitari, dopo un breve periodo di tempo in cui la loro vendita è subordinata al controllo veterinario, vengono agevolmente reperiti presso tutti i canali, ivi compresa la grande distribuzione, senza che sia richiesta alcuna ricetta. Al contrario i farmaci riservati a patologie meno frequenti, magari salvavita, ma poco redditizi per l’azienda che li produce, spariscono dal mercato senza alcun obbligo o vincolo legale né morale della ditta che l’ha prodotto.
Non è vero che vincolare il farmaco veterinario, riduce il rischio che i proprietari di animali ricorrano illegalmente a ricette a uso umano, anzi una tracciabilità migliore farebbe emergere questo genere di truffe allo Stato. La ricetta del veterinario comporterebbe un acquisto senza ricorso alle riduzioni di spesa riconosciute ai cittadini dal Sistema sanitario Nazionale. Emersione significa produrre legalità e non viceversa. L’altro argomento spesso richiamato è il rischio di sviluppare antibiotico resistenze come conseguenza dell’uso sugli animali di farmaci prodotti per l’uomo.
Tale rischio risulta oggettivamente molto basso e facilmente scongiurabile semplicemente vietando l’utilizzo sugli animali di molecole di nuova generazione, per un sufficiente numero di anni dalla loro scoperta e commercializzazione in ambito umano.
La definizione di farmaco “umano” o “veterinario”, imposta nei testi di legge, rimuove dunque al cittadino proprietario di animali da compagnia qualsiasi possibilità di accedere al farmaco più conveniente sotto l’aspetto economico. Pone inoltre artificiosamente una distinzione (non più basata sulla scienza ma sul mercato) di prodotti riservati all’uomo e agli animali. Inoltre impedisce al medico veterinario di scegliere, secondo scienza e coscienza, la miglior molecola da impiegare per la patologia che vuole curare.
Al momento non è permesso (è anzi pesantemente sanzionato) l’uso dello stesso principio attivo “umano” o del farmaco generico corrispondente (ad oggi solo umano in realtà), ma anche e soprattutto l’impiego di un principio attivo scientificamente dimostratosi migliore e più efficace per la stessa patologia, ma per il quale nessuna azienda farmaceutica ha ancora o mai dimostrerà interesse per la registrazione in veterinaria.
Dobbiamo far capire ai cittadini che il “generico veterinario” potrebbe rivelarsi una grandissima bufala in quanto parliamo di limitate percentuali di riduzione dei costi (fino al 20%) in prodotti di un piccolo mercato, che dunque sono prodotti se le percentuali di incasso sono notevoli ma spariscono (logicamente) dal sistema produttivo se tali percentuali sono limitate: senza vincoli! Comunque il legislatore dovrebbe valutare con grande attenzione quale reale interesse pubblico e collettivo risieda nel creare una distinzione umano-veterinario che pur rappresentando un “mercato” di sicura utilità per alcuni soggetti, comporta contestualmente la realizzazione di un oneroso sistema di controllo, sanzioni, gestione dell’animale (spesso principalmente a carico delle Pubbliche Amministrazione,cioè Comuni e aziende sanitarie, nel caso dei numerosi canili italiani) la cui unica ragione reale è la gestione commerciale dei prodotti farmaceutici.
Ancora uno stimolo di riflessione. Che senso può avere parlare di “farmaco veterinario” e dell’importanza che un farmaco sia specificatamente registrato per l’uso veterinario anziché per uso umano? “Umano” identifica di fatto una sola specie, mentre “Veterinario” significa destinato ad una qualsiasi specie animale, il numero delle quali non è nemmeno conosciuto con esattezza, ma -a seconda delle stime- si parla da 1,8 a 8,7 milioni di specie (fino a 100 milioni in alcune fonti scientifiche). Evidente che persino una semplice soluzione fisiologica – registrata per uso veterinario – non può essere stata testata su tutte le specie per le quali ne è invece stato giuridicamente autorizzato l’utilizzo.
L’Italia si confronta con tante leggi europee che porterebbero a ridurre la spesa pubblica; viceversa una legge che riconosca ad un medico veterinario le conoscenze per terapie migliori e meno costose sarebbe una conquista da difendere e non un errore da cancellare.
Affaritaliani – 19 febbraio 2017