Sono le 22 e il pronto soccorso dell’ospedale dei Pellegrini di Napoli si presenta come un accampamento in zona di guerra. La paziente appena arrivata è assistita su una sedia, l’ultima barella è servita per un’altra donna. L’hanno portata due uomini in sella a uno scooter. In tre, senza casco, sono piombati nel cortile dell’ospedale e si sono fermati solo davanti agli undici gradini che separano il reparto dall’esterno: una barriera architettonica da superare per arrivare al reparto di urgenza, anche questo è un caso.
Benvenuti nella Pignasecca, rione dell’antica Napoli, dove resiste l’unico pronto soccorso del popoloso centro storico partenopeo. «I medici che lavorano qui sono degli eroi» dice Emilio Bellinfante, il responsabile del reparto. E come dargli torto: 190 accessi giornalieri, con appena 12 postazioni: cinque occupate dai ricoverati, lasciati lì perché in Medicina non c’è più posto. A lottare tra insulti minacce e aggressioni verbali e fisiche e persino sparatorie ci sono 5 infermieri, di cui due impiegati al Triage, due internisti e un paio di chirurghi, quando va bene, ad ogni turno. Più che un ospedale è una catena di montaggio, perpetua. «Ho male all’addome» dice una ragazza all’infermiere allo sportello. Il camice bianco le chiede un documento e di firmare un modulo per la privacy. Richiesta che scatena la protesta della giovane: «Mi volete far morire qui?» urla e si allontana furiosa. Dopo dieci minuti torna “scortata” dalla mamma che grida contro il personale e costringe la guardia giurata ad aprire la porta. Ma non si calma: «Accade solo a Napoli, fate morire la gente», ripete indemoniata. L’infermiere del Triage non replica. Il personale è allenato a farsi scivolare quante più cose addosso, finché è possibile, per evitare il peggio. L’unico vigilante presente non riesce a disciplinare il traffico di pazienti, familiari di pazienti, amici di pazienti e amici di familiari di pazienti.
L’obiettivo è limitare la tensione ed evitare quello che è successo venerdì mattina quando, alle 12 circa, un uomo è arrivato lamentando conati di vomito. Codice Verde. Doveva aspettare, altre priorità: sei codici gialli. Ma è andato in escandescenza. Ha rovesciato una pesante barella di ferro e ha distrutto a calci una porta elettronica. Prima, però, si è scagliato contro l’internista Giovanna Tozzi, 63 anni, prossima alla pensione, in servizio al Pellegrini dal 2005. «Mi ha insultata e minacciata — racconta Tozzi — “che fai, mi uccidi? Non mi fai paura”. Gli ho detto. E lui se l’è presa con una specializzanda. Non è un caso se ha inveito contro due donne». Giovanna ama il suo lavoro ma ammette di essere stanca: «Sono una veterana, ma sono davvero stufa: è un mondo che non mi appartiene più. Noi medici siamo visti come i nemici dalle persone che invece vogliamo aiutare. Mi vengono spesso in mente le parole di un collega: “Siamo come il vino: quando è giovane non serve quando è vecchio diventa aceto”».
Il via vai è continuo. C’è un papà con la figlia che ha avuto un incidente al dito. Non si ferma allo sportello del Triage. La guardia giurata utilizza tutta la calma possibile per spiegargli che deve avere pazienza perché i medici sono tutti impegnati con casi più urgenti. Mentre parla arriva un taxi. Trasporta una donna sudamericana priva di coscienza. L’accompagnano i familiari. Nessuno parla bene l’italiano. «Ho 53 anni, da 15 anni lavoro qui e sono ancora vivo — ci scherza su Bellinfante — siamo al fronte. Mi dispiace che quello che c’era di bello nella professione medica, ovvero il rapporto con il paziente, sia completamente svanito. Oggi siamo trattati come nemici». A maggio nell’ospedale si è sfiorata la strage: killer della camorra spararono nel pronto soccorso per tentare di uccidere un uomo ferito in strada poco prima. Antonella Tizzano, infermiera, di episodi ne ha tanti da ricordare. «Come quando un paziente stufo di attendere il suo turno, prese una panchina di ferro e la lanciò contro la vetrata. Ogni giorno siamo insultati e minacciati se va bene, altre volte ci picchiano».
Angela Solimeno, 35 anni, anche lei infermiera, sorride sarcastica: «Questo ospedale è proprietà privata degli abitanti della Pignasecca. Vogliono decidere orari, procedure e si auto-diagnosticano malattie e ci indicano le terapia». La notte al Pellegrini è ancora lunga. Nella sala d’attesa aperta sul cortile il freddo è pungente. C’è un unico paziente seduto, gli altri, oltre venti persone, sono all’interno del pronto soccorso. Sul monitor del triage si legge: “Dati non disponibili” perché è guasto.
Arriva un altro taxi con una anziana. La caricano su una barella ed entrano nell’ascensore perché altrimenti dovrebbero portare la lettiga a braccio per superare gli 11 scalini. Problemi respiratori, codice giallo. Sparisce dietro una tendina verde. Seguono tre uomini. Uno ha male a un orecchio. «Qui è saltato tutto — ringhia un infermiere. Dove sono i medici di famiglia e le guardie mediche? Per qualsiasi fesseria la gente corre all’ospedale». Beniamino Menzone quattro anni fa è passato ai reparti: «Ma non crediate che lì le cose vadano meglio. Insulti e minacce sono all’ordine del giorno. In questo ospedale ho visto di tutto. Ero qui quando portarono un boss della camorra ferito in un agguato. Eravamo assediati, non si capiva nulla. Caos totale, tra urla, lampeggianti della polizia, pianti e paura».
Repubblica