Laureati in fuga. Sembra il titolo di un film, ma in realtà è la fotografia – recentemente scattata dall’Istat – dell’esodo che interessa i giovani talenti che il nostro bel Paese cresce, forma e lascia fuggire altrove, dove migliori risultano le condizioni occupazionali. Stando all’ultimo report dell’Istituto nazionale di statistica, nel decennio 2012-2021 è espatriato dall’Italia oltre 1 milione di residenti, di cui circa un quarto in possesso della laurea. In particolare, ogni anno il 5-8% di profili altamente formati migra al di fuori dei confini della penisola
Su un totale di 337mila giovani, con un’età compresa tra i 25-34 anni, espatriati nel decennio 2012-2021, oltre 120mila al momento della partenza risultavano laureati. D’altra parte, i rimpatri di giovani della stessa fascia d’età sono stati circa 94mila nell’intero periodo 2012-2021 e solo 41mila dei rientranti erano in possesso del titolo universitario. La differenza tra i rimpatri e gli espatri dei laureati è costantemente negativa e restituisce un deficit complessivo, per il periodo considerato, di oltre 79mila unità.
“La perdita di 79mila giovani laureati in un decennio equivale, se vogliamo fare un paragone di tipo geo-demografico, alla sparizione di un capoluogo di provincia come Varese. Una cifra considerevole che però messa a confronto con i grandi numeri del passato appare quasi irrisoria. Il fenomeno dell’emigrazione italiana, infatti, è storico e va fatto risalire alla fine dell’Ottocento, quando nell’era delle Grandi Emigrazioni, prima transoceaniche e dopo verso i paesi europei, si sono spostati dall’Italia milioni di connazionali (si stima ne siano partiti oltre 29 milioni e di questi, solo 10 milioni sono poi rimpatriati). Alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, l’Italia si trasforma da paese di emigrazione a paese di immigrazione (si registra per la prima un numero di ingressi che supera le uscite) ma l’emigrazione non si è mai arrestata del tutto. Adesso siamo in una fase di ‘nuova emigrazione’: se prima l’emigrato italiano era colui che partiva con la ‘valigia di cartone’ con molte speranze e poche risorse economiche, adesso l’identikit del nuovo emigrante è connotato da un’elevata specializzazione e da notevoli competenze”, spiega ad Huffpost la dottoressa e ricercatrice Istat Francesca Licari.
Il fenomeno migratorio, di antica tradizione, sembra dunque continuare a strutturarsi. Eppure nel 2021 si osserva per la prima volta una battuta d’arresto del flusso verso l’estero, dovuto al calo generalizzato degli espatri. “Con riferimento ai giovani adulti tra i 25 e i 34 anni – si legge nel report – la diminuzione degli espatri nel 2021 rispetto al 2020 ha ridotto l’emigrazione giovanile del 21% e, in misura proporzionale, è calato anche il numero dei laureati espatriati nella stessa fascia di età (14mila, -21% rispetto al 2020)”. Dati, quest’ultimi, apparentemente positivi, se non si considerasse il fatto che la quota dei laureati sul totale dei giovani espatriati è rimasta stabile e il saldo migratorio, seppur in discesa, è ancora fermo alle 7mila unità. Infatti, avverte la ricercatrice, ci sono precisi fattori di cui tener conto per comprendere in modo appropriato il trend generale: “La pandemia da Covid-19 ha frenato, negli ultimi anni, i flussi in ingresso e in uscita dal Paese per motivi legati sia alle restrizioni alla mobilità, messe in atto per contrastare la diffusione del virus, sia all’incertezza economica che ha caratterizzato il panorama internazionale che si è inevitabilmente riflessa sui mercati del lavoro. La combinazione dei due elementi ha inciso fortemente sulla mobilità causando, probabilmente, l’abbandono o il rinvio dei progetti migratori. Dagli ultimi dati a disposizione, si rileva un calo poderoso delle emigrazioni e un aumento, invece, dei rimpatri. Stabilire le cause di questa controtendenza è difficile oltre che prematuro. Bisognerebbe tener conto di altri fattori, come ad esempio l’affermazione e la diffusione dello smartworking, che hanno ridisegnato le geografie del mercato del lavoro. Quindi è decisamente affrettato ritenere che il calo sia strutturale”.
Molte le mete scelte dai giovani in fuga, la preferita l’Inghilterra, come sottolinea Licari. “Il Regno Unito ha sempre esercitato una notevole attrazione per gli emigrati italiani, insieme ad altri paesi europei come la Germania e la Francia. Il fattore di attrazione è prevalentemente costituito dall’ampia domanda di lavoro espressa dal Paese che va dal lavoro ‘a basso costo’, che coinvolge quindi anche i lavoratori meno specializzati, a quello a forte vocazione specialistica, ad appannaggio dei giovani espatriati con elevate competenze, che alimenta poi il flusso migratorio connotato come ‘fuga di cervelli’. Il nuovo sistema di reclutamento a punti, sulla base del modello australiano, di fatto offre uguali opportunità di lavoro ai giovani europei ed extra-europei elevando quindi la competitività”.
Tra i tanti laureati che optano per Inghilterra, Germania e Francia spicca una precisa categoria: quella dei camici bianchi. Almeno mille medici ogni anno scelgono di andare all’estero in cerca di stipendi più alti e migliori possibilità di carriera. Nulla di male, se non fosse che lo Stato italiano spende oltre 150mila euro per formare gli studenti di medicina in un percorso che dura in media 11 anni. 25mila euro il costo per i 6 anni di laurea e 128mila euro quello per la specializzazione. Si tratta di oltre 150milioni che l’Italia dona annulamente ad altri Paesi che – senza alcun tipo di investimento – ricevono medici già formati. L’esodo aggravava poi la carenza di sanitari provocata da una lunga tradizione di tagli alla spesa pubblica.
A far luce sulla situazione Giudo Quici, presidente nazionale di CIMO, il primo sindacato medico italiano costituito nel 1946. “La fuga dei medici all’estero è un fenomeno che tenderà ad aumentare e non certamente ad arrestarsi visto il nostro contesto nazionale. La causa di questo esodo credo non sia solo da attribuire all’aspetto economico – che è sì una componente chiave dato il divario tra gli stipendi italiani e quelli degli altri paesi – c’è anche l’aspetto della carriera da tenere in considerazione. Negli ospedali italiani 7 persone su 100 riescono a raggiungere ruoli apicali. Se manca lo stimolo professionale la fuga sembra l’unica via. Un altro aspetto importante da avere a mente è relativo alla responsabilità giuridicata. Solo in Italia, Messico e Polonia l’atto medico può essere sanzionato penalmente. Si è così costretti a lavorare con il timore di poter ricevere avvisi di garanzia. Se scatta la causa, spesso si risolve in maniera positiva per il medico: nel 95% dei casi, infatti, i verdetti mettono in evidenza problemi di carattere organizzativo. Ciononostante l’idea di lavorare, assumendosi il rischio di una causa penale, non è certamente attrattiva. A questo si aggiungono le assicurazioni legali che gli stessi medici sono costretti a pagare. E’ un insieme di condizioni che fanno sì che i giovani laureati in medicina decidano di andare all’estero, in analogia con tante altre professioni. Il nostro contesto nazionale porta o meglio costringe i talenti ad andarsene”. Commenta Quici, che pone l’accento anche sulle politiche fin’ora adottate: “Sono palliativi, alcune hanno quasi il carattere di provocazioni. L’emergenza è adesso e adesso il governo dovrebbe agire per migliorare la sanità così da indurre i giovani a rimanere. Ma l’Italia crede nei giovani? Crede nella sanità pubblica e vuole che continui ad esistere? L’attuale sistema sanitario soffre e lo Stato, che spende migliaia di euro per formare i futuri medici, non offre ad essi concrete e proficue condizioni per restare.”
Quici immagina, da ultimo, delle possibili soluzioni: “Facilitare il percorso di crescita professionale, ossia i percorsi di carriera. Migliorare la qualità della vita dei medici, costretti a turni massacranti. Stabilizzare gli specializzandi in tempi rapidi, i più rapidi possibili. Mettere in condizione gli ospedali di fare gli ospedali, rendendoli sicuri, recuperando posti letto, riaprendo gli ambulatori. Incentivare i medici a livello economico ed infine far rientrare la responsabilità professionale solo nel campo del diritto civile. Sono necessari più interventi finalizzati a restituire quella dignità del lavoro che oggi manca e che costringe i giovani medici – e non solo – ad andarsene”.