«Un po’ di tempo fa ho prenotato un dermatologo a Borgo Cavalli. Il primo libero, mi hanno detto, era un medico straniero, romeno. A me andava bene, per cui ho confermato. È stato proprio il dottore, tra l’altro uomo elegante e di bell’aspetto, a dirmi che era sempre libero, perché i pazienti gli preferivano i medici italiani… Come mi sono trovata? Molto semplicemente, mi ha dato la pomata di cui avevo bisogno e sono guarita, quindi bene». Nella vita prima della pensione, Emma è stata perno di una libreria trevigiana. Ha approfittato del 25 Aprile per far visita, accompagnata dal figlio, a una cugina ricoverata al Ca’ Foncello. Presto, forse prestissimo, il primo ospedale dell’Usl 2 ospiterà alcuni dei dieci medici romeni che il direttore generale, Francesco Benazzi, sta cercando di ingaggiare entro un accordo con l’università di Timisoara. Camici bianchi stranieri per far fronte alla domanda che il mercato interno dei professionisti, causa esiguità delle borse di specializzazione per i laureati e l’emorragia da pensionamenti anticipati con la finestra triennale di «Quota cento» voluta dal governo Salvini-Di Maio, non riesce a soddisfare. In questa e altre strutture, comunque, la presenza di personale non italiano è tutto fuorché novità. Infermieri e, più ancora, operatori sociosanitari stranieri lavorano nelle province venete da anni. Giusto, allora, chiedere: sotto (e accanto) come va? Com’è il rapporto, dei pazienti, e di qualche collega, con questo personale?
«Non è male, però…». Però? Paolo, infermiere al Ca’ Foncello dal ’74, pensionato, oggi è comunque al lavoro in corsia. Chiede un nome di fantasia: Paolo, appunto. «Sono libero professionista di uno studio associato, che ha in appalto un servizio. Coi colleghi stranieri, dicevo, non va male. Quelli professionali, quelli con diploma di laurea, sono anche bravi. Quando, però, si parla di oss (operatori socio sanitari, in sintesi ausiliari di supporto ai professionisti sanitari, ndr ) qualche problema si pone, vuoi per la lingua, vuoi per l’approccio ai pazienti… Modi bruschi? Modi spicci? Pazienti maltrattati? Di che si parla? «Dico solo che per fare questo lavoro ci vuole qualcosa. Se quel qualcosa manca, allora è meglio fare altro». Intende la vocazione? «Diciamo di sì». Quindi trova che, per qualcuno di questo nuovo personale, il movente possa essere prevalentemente economico? «Probabilmente è così – ammette Paolo -. Comunque abbiamo avuto problemi simili anche con il primo personale venuto dal sud. Formazione, approccio: col tempo si migliora…».
Parola a Giada, 28 anni, impiegata, visita a un parente appena conclusa: «Stranieri o italiani non fa differenza. L’importante è che facciano bene il loro lavoro». Enuncia un principio o ha esperienze dirette da poter riferire? «Mia madre ha avuto il cancro alla tiroide e al reparto c’era anche personale straniero, su cui non ho nulla da obiettare». C’è anche il rovescio, o quasi, della medaglia: «Mamma ha anche il diabete e col medico del centro diabetologico che la seguiva ha litigato». Un dottore straniero? «Sì, però diciamo che non si prendevano bene e basta». Anche Emma racconta un proprio rovescio: «Alla mia vecchia zia, in casa di riposo, è sparito un orologio d’oro antico e due magliette nuove». L’ex libraia aveva sospettato di un’assistente moldava: «Ma la responsabile del reparto ha garantito per tutto il personale ed è finita lì», tra scuse definite generiche e qualche crosta di risentimento.
Uno che dice senza paraventi quel che più di qualcuno accenna viene da Occhiobello, è pensionato e di nome fa Gianni: «Nulla contro gli stranieri. Saranno tutti bravissimi, ma il fatto che si vada a prenderli all’est, un po’ come per i call center, fa pensare che si voglia pagarli meno e basta». Al pensiero si somma il dubbio orgoglioso dispensato da un clergyman di passaggio tra i corridoi: «Mi sembra strano che non ci siano medici in Italia», dice don Giovanni, parroco di… «Di lasci stare», sorride e se ne va. Addetta alle mense dell’ospedale: «Vuole la verità?». Si accomodi: «Conosco bravi medici e bravi infermieri, italiani come stranieri, e altri che sono degli emeriti pezzi di m… italiani come stranieri». Meno cruda la verità di Mara, trevigiana, 55 anni: «Secondo me – spiega – è che anni addietro, quando c’era abbondanza di medici, bisognava mettere i giovani in affiancamento al personale più anziano, in modo da garantire quel ricambio che ora non c’è. Adesso pescare all’estero probabilmente è una necessità, ma può essere, e la prego di sottolineare il può essere, che si stia semplicemente andando in cerca del personale dove costa di meno». Torniamo all’infermiere in libera professione: «Mi dicono: sei pensionato e lavori ancora. Potesti lasciare il posto ai più giovani. Non lo nego ma rispondo: se non ci fossi io, verrebbe qualcuno dall’estero». Scusi, Paolo, ma non è chiaro. Quelli come lei sarebbero una sorta di argine alla venuta di personale straniero? «Le domando: il motivo per cui si appalta un servizio a uno studio associato o a una coop qual è?». La gara, la concorrenza? «Ovvero i minori costi. E il motivo per cui si assume uno straniero, secondo lei, quale sarà?».
Il dg Benazzi: «Sono dieci studenti, ottima preparazione e parlano l’italiano»
«Una soluzione d’emergenza che evidenzia responsabilità organizzative, regionali e nazionali», secondo l’ordine dei medici di Treviso. «Una soluzione di qualità per coprire le carenze di organico e la mancata partecipazione ai concorsi per specialisti nei nostri ospedali» secondo l’Usl 2. È il direttore generale della sanità trevigiana Francesco Benazzi a spiegare, ancora una volta, la necessità di ricorrere ad assunzioni di medici stranieri, a partire dai dieci specializzandi dell’università di Timisoara, in Romania, con i quali c’è un contatto per procedere a un incarico al Ca’ Foncello di Treviso. «Abbiamo richiesto dieci studenti dell’ultimo anno – evidenzia Benazzi -, qualcuno di loro è già laureato in Italia ed ha scelto l’università romena per la specializzazione. In questo caso, la lingua non comporta più una difficoltà. I giovani medici entrerebbero in una rete formativa allargata, già avviata su scala nazionale, sarebbero seguiti da un tutor e potrebbero partecipare ai nostri concorsi anche in attesa della specializzazione». Treviso ha richiesto ginecologi e anestesisti, fondamentali per mantenere operative le sale, ed è disposta a garantire il completamento della formazione: «Hanno già una preparazione ottima».
I primi medici stranieri a Treviso erano stati selezionati dallo storico dg degli anni Novanta, Domenico Stellini; in prevalenza anestesisti, già allora: la ricerca continua. In Italia gli stipendi sono regolati dal contratto nazionale, senza differenze in base alla provenienza. Rimane lo scoglio della lingua che, per l’ordine dei medici, pesa. «Nostro obiettivo è la tutelare la salute dei cittadini nel rispetto dei parametri di qualità e della libera circolazione dei professionisti – spiega il presidente Luigino Guarini -. Dobbiamo certificare i titoli formativi e la buona conoscenza della lingua; in medicina la comunicazione è indispensabile, per questo è stata istituita una commissione apposita». Il campanello d’allarme è suonato da tempo: «Ricorrere a medici stranieri è una soluzione di emergenza, cui la politica dovrebbe invece prevedere con una programmazione adeguata, mentre 2.500 laureati ogni anno restano fuori dalle scuole di specialità». «Oggi mancano ginecologi – aggiunge Brunello Gorini, segretario della Fimgg -, in futuro la carenza sarà di altri specialisti perché la fuga dalla professione assume dimensioni sempre maggiori. Lo si deve alla ridotta stima verso il medico, al minor vantaggio economico e al sempre maggiore rischio di denuncia».