Se quella dei camici bianchi ospedalieri è una fuga di dimensioni bibliche, gli studi dei medici di famiglia stanno andando verso la desertificazione. In Lombardia, Alto Adige, Calabria, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna, Campania, ma anche in Piemonte e Liguria già oggi scegliere un medico di base o cambiare quello che si ha può diventare un’impresa. Che sarà una mission impossible da qui a due anni, quando i nostri dottori di fiducia, sempre più anzianotti, andranno in pensione, senza che a compensare le uscite arrivino le giovani leve, disaffezionate a un mestiere sul quale gravano il peso della burocrazia, retribuzioni erose dall’inflazione e i troppi pazienti da seguire.
A fotografare l’esodo dei camici bianchi dalla prima linea dell’assistenza sanitaria territoriale è un rapporto dell’Agenas, l’Agenza pubblica per i servizi sanitari regionali. In 15 anni, dal 2006 al 2021, tra medici di base, pediatri e guardie mediche si sono persi per strada 13.788 dottori, uno su cinque. Nel 2002 di medici di famiglia se ne contavano oltre 46mila. Poi anno dopo anno l’erosione: 42.426 nel 2019, 41.707 nel 2020, 40.250 l’anno successivo per arrivare da qui al 2025 a contarne solo 36.628, qualcosa come diecimila in meno in 12 anni, durante i quali la popolazione sarà pure leggermente diminuita ma è anche invecchiata.
E sono proprio gli anziani a fare più spesso visita agli ambulatori dei camici bianchi del territorio. Il problema è che già oggi la maggior parte di loro ha oltre 25 anni di servizio alle spalle e il ricambio generazionale non è in vista all’orizzonte. Anzi, secondo l’Enpam, l’ente previdenziale dei dottori, i giovani formati da qui al 2031 copriranno solo la metà dei 20mila medici di famiglia destinati ad andare in pensione, visto che oltre la metà di loro ha già più di 60 anni.
Ma già oggi i medici che hanno a proprio carico più di 1.500 assistiti sono il 42,1%, ed essendo questo il massimo degli iscritti stabilito dal loro contratto sono costretti a rimandare al mittente le nuove richieste di iscrizione da parte dei cittadini. Che magari si ritrovano a dover scegliere un dottore più lontano dalla propria abitazione o che non conoscono affatto. Così come diventa un’impresa cambiare medico quando il proprio non soddisfa più le nostre esigenze.
Un problema più sentito al Nord, dove in media ogni medico ha 1.326 assistiti, mentre al Centro a ciascuno gliene toccano 1.159 e al Sud 1.102. Ma poi la situazione varia parecchio da regione a regione. Così a star messo paggio è l’Alto Adige, con 5,47 medici ogni 10mila abitanti, seguito da Lombardia (5,8), Calabria (5,86) e Trentino (6,09). Sotto la soglia di guardia di 7 medici ogni 10mila abitanti sono anche Veneto, Valle d’Aosta, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna, Campania, Piemonte, Liguria e Marche. Ma tra due anni tutte le regioni saranno a “rosso fisso”, con il serbatoio di medici quasi svuotato.
«Il problema – spiega Anna Lisa Mandorino, segretario nazionale di Cittadinanzattiva- è che spesso le carenze di medici di famiglia sono concentrate nelle zone più periferiche del Paese, a bassa intensità abitativa, che abbiamo definito per questo deserti sanitari».
Una svolta a questo declino della nostra medicina di base potrebbe arrivare con la formazione dei giovani medici, visto che il governo ha messo a disposizione dei neo laureati 900 borse di studio in più per specializzarsi in medicina generale, grazie ai fondi del Pnrr che si aggiungono a quelli ordinari. Così da qui al 2025 le borse di studio passeranno da 1.879 a 2.779. Il concorso è già partito, ma il problema è che a presentarsi sono stati meno delle attese. E questo di certo non aiuta a sciogliere l’altro nodo, quello delle 1.400 Case di comunità finanziate sempre dal Pnrr, che dovranno sorgere nel territorio entro il 2026, assicurando continuativamente l’assistenza 7 giorni su 7, facendo lavorare in team medici di famiglia, specialisti e infermieri. A trovarne però nel mercato, visto che c’è carenza per tutte queste figure professionali.
«Con la desertificazione della medicina territoriale in atto possiamo pensare a tutti i modelli organizzativi che vogliamo per avviare le nuove Case di comunità previste dal Pnrr, ma rimarranno sempre scritti sull’acqua», afferma Silvestro Scotti, segretario nazionale della Fimmg, la Federazione dei medici di famiglia. Che rispetto all’ipotesi Schillaci di far lavorare nelle nuove strutture come dipendenti i giovani medici di base va giù duro: «I sistemi misti, con convenzionati e dipendenti, non hanno mai funzionato come dimostra l’esperienza del 118, se sarà così andremo allo scontro perché in questo modo salterebbe il rapporto fiduciario che abbiamo con i nostri assistiti». La strada che porta alla riforma della medicina territoriale sembra ancora in salita.
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