Non è un gran periodo per chi indossa il camice bianco. Gli anni della pandemia e le tante criticità del Ssn pesano su morale e umore dei medici italiani. Alle prese con burnout e sogni di fuga dalle corsie. Così se il 46% pensa alla pensione anticipata, chi è lontano come età da questa meta spesso riflette sulla possibilità di lasciare il servizio pubblico per il privato, mentre uno su dieci vuole addirittuta cambiare mestiere.
A sondare l’umore dei medici italiani è la survey condotta da Fadoi, la Federazione dei medici internisti ospedalieri, su un campione rappresentativo di camici bianchi di tutte le regioni italiane, con alle spalle in oltre la metà dei casi molti anni di carriera (appena il 30% del campione che lavora da meno di 10 anni nel Ssn).
“L’indagine rivela, forse a sorpresa per chi non conosce a fondo la realtà medica, che per continuare a tenere legati i medici al servizio pubblico non sono tanto le retribuzioni più alte, che pur andrebbero almeno avvicinate a quelle europee, quanto piuttosto il miglioramento delle condizioni di lavoro e di carriera, oltre che la garanzia del rispetto dei diritti pensionistici acquisiti”, sintetizza il presidente di Fadoi, Francesco Dentali, che ammette: “Preoccupa quel 40% che pensa di lasciare il servizio pubblico”.
Chi resiste
Uno scoramento generale che però non spegne del tutto l’appeal del Ssn: circa il 70% degli ospedalieri vede ancora nel servizio sanitario nazionale un baluardo del diritto alla salute, che mette le ragioni assistenziali davanti a quelle economiche. E se il 9,8% pensa che gli straordinari meglio retribuiti possano risolvere il problema delle liste di attesa, per il 41,2% quest’emergenza si affronta assumendo personale.
“Sono gli stessi medici nelle loro risposte a indicare la via della rinascita: un Ssn che torni a garantire a tutti il diritto alla salute, apponendo le esigenze assistenziali davanti a quelle economiche, indicate da oltre il 70% dei medici come elemento che ancora li lega al pubblico”, commenta Dentali.
I pentiti
Quasi la metà dei medici intervistati pensa però di appendere in anticipo il camice bianco al chiodo, per evitare presenti e futuri tagli alle pensioni e per i carichi di lavoro eccessivi. L’idea sta passando per la testa del 46,15% di loro. Se solo nel 10% dei casi si trasformasse in realtà significherebbe la fuoriuscita anticipata dai nostri ospedali di decine di migliaia di professionisti.
Dopo gli allarmi (e gli scioperi) delle scorse settimane, non stupisce come a spingere il 57,14% dei medici al pensionamento anticipato sia la paura di subire un taglio alla propria pensione, magari con misure retroattive come quelle introdotte nella manovra, poi alleggerite con un successivo emendamento. Per il 30,95% invece la causa sarebbero gli eccessivi carichi di lavoro, mentre la bassa retribuzione motiva solo il 2,38% e la voglia di chiudere la carriera all’estero il 9,53%.
Chi non è in età di pensione nel 38,71% dei casi sta pensando di lasciare il servizio pubblico. Il 21,82% per andare nel privato, il 4,55% all’estero, mentre il 12,33% pensa di cambiare del tutto attività. Così tutto sommato non stupisce come il 36,43% alle condizioni attuali potendo tornare indietro nel tempo non sceglierebbe più questa professione.
Il diritto alla salute
Il 59,2% dei resilienti motiva la propria scelta con il voler garantire a tutti il diritto alla salute, mentre il 17,46% percepisce ancora come un valore la sicurezza del posto di lavoro, e per il 13,66% a non sciogliere il legame con il Ssn è il fatto che le esigenze assistenziali nel pubblico vengano prima delle ragioni economiche. Per uno sparuto 9,68% la motivazione è la qualità dei nostri ospedali, che resta ancora alta.
Nei reparti di medicina interna
L’indagine Fadoi analizza le criticità nei reperti di medicina interna, che in media assorbono circa il 50% di tutti i ricoveri ospedalieri. Per il 52,55% degli intervistati il problema numero uno resta la carenza di personale medico e infermieristico, soprattutto se rapportato alla intensità di cura medio-alta di reparti classificati però come a bassa intensità di cura.
La scarsa valorizzazione del medico di medicina interna nell’organizzazione del lavoro ospedaliero è invece segnalata dal 30,91%. Il 9,27% punta il dito sulla scarsa o mancata integrazione tra ospedale e servizi territoriali e il 7,27% sulla carenza di posti letto.
Questione specializzandi
Sull’utilizzo degli specializzandi a copertura delle carenze, solo il 21,25% dei medici intervistati pensa che ciò possa mettere a rischio la qualità dell’assistenza. Per il 56,36% è invece utile, purché i giovani svolgano le loro attività affiancati da un tutor, mentre per il 22,39% servono, ma sarebbe bene semplificare la burocrazia che ne vincola l’utilizzo negli ospedali al parere delle università.
Non solo soldi
Se le novità in tema di pensioni spaventano, non convince la formula straordinari meglio pagati per ridurre le liste di attesa, contenuta nella manovra economica, giudicata efficace solo dal 9,87% degli intervistati. A parere del 27,7% andrebbe ridotta l’inappropriatezza prescrittiva e appena l’1,33% ricorrerebbe al privato convenzionato per tagliare le liste di attesa.
“Quanto una buona riorganizzazione possa incidere positivamente nel motivare i medici lo dimostrano le criticità emerse riguardo le medicine interne”, sottolinea il presidente della Fondazione Fadoi, Dario Manfellotto. “Nei nostri reparti basterebbe superare una anacronistica e vetusta classificazione ministeriale, che con il codice 26 li definisce ancora a bassa intensità di cura, quando basta scorrere l’elenco delle cartelle cliniche per capire che i nostri sono pazienti complessi, che necessitano di alti livelli di assistenza”.
“Un problema che sembra di natura burocratico-amministrativa ma che, in realtà, si traduce in una sotto-dotazione, sia in termini di organico che di tecnologia”, conclude Manfellotto. Ecco, l’indagine sottolinea come sia arrivato il momento di intervenire.