Ettore Jorio, Il Sole 24 Ore sanita. La sanità ha chiuso il 2023 con tanti problemi da scoraggiare chiunque nel ricorrervi con fiducia. Vive una situazione di disagio economico ma soprattutto organizzativo che l’ha resa, dopo tanti anni di gloria e la migliore legge riforma (la n. 833/1978), vergognosamente maltrattata.
Le decisioni che spettano per un buon governo del Paese
Sul piano politico, due gli eventi che hanno generato più di una preoccupazione: un finanziamento con un incremento economico da bilancino del farmacista, che non ha tenuto affatto conto dei costi di avvio della novellata assistenza territoriale, e una prospettiva di rimpinguamento del Fondo sanitario nazionale, previsto nei due anni a venire, che non tiene altrettanto conto del finanziamento che dovrebbe essere, si spera di qui a pochissimo, non più quello di oggi. Nessuno ha considerato (neppure negli emendamenti della opposizione) infatti, forse perché incredulo per progetto ideologico, che nel 2024 è previsto (legge 197/2022) – salvo il solito boicottaggio politicamente collettivo durato 22 anni – l’ingresso a regime di due strumenti fondamentali: i Lep e il binomio costi/fabbisogni standard implementati dalla perequazione in favore delle Regioni più povere di gettito fiscale proprio.
A tutto questo aggiungasi la non adesione al Mes che ha sottratto l’opportunità, vecchia di qualche anno, di utilizzare 37 miliardi di euro per dare alla sanità lo scossone che le occorre, magari investendoli nell’oramai indispensabile riforma quater.
Questo è quanto, criticabile e, di contra, auspicabile (quanto all’applicazione del federalismo fiscale) sul piano della conduzione politica del tema salute!
Il guaio è non rispettare le regole
Altro punto, non propriamente conseguenziale al primo ma certamente connesso, è quello del funzionamento del Ssn, del quale però nessuno se n’è ancora accorto.
Si sta generando una grande polemica sul ricorso ai medici a gettone, su quelli provenienti dall’estero, prevalentemente latinoamericani, e su quelli “operanti ma non assunti” dal sistema pubblico e attivi in quello privato.
Su anzidette fattispecie contrattuali, differenziando i primi (quelli a gettone) dagli altri per la vergognosa esosità delle loro retribuzioni da nababbi rispetto ai colleghi in organico nelle medesime strutture, occorrerebbe affrontare un serio problema di civiltà giuridica, soprattutto.
Si vive da tempo un dilemma che è gigantesco sotto diversi punti di vista, tanto da generare preoccupazioni non di poco conto, sia per i destinatari delle prestazioni sociosanitarie, ovvero gli utenti del Ssn, che per gli enti pubblici e privati sociosanitari che ricorrono ai loro servizi professionali, spesso imprudentemente e impudentemente. Ciò senza valutare le conseguenze, di carattere penale e risarcitorio, che cadranno addosso su tutti coloro i quali sono coinvolti nella relativa catena di comando che consente una siffatta pericolosa anomalia erogativa.
Una istanza di risarcimento cui ogni sottoposto alle prestazioni può accedere solo perché affidato alle cure di professionisti non organici e, dunque, non alle dipendenze dell’ente liberamente prescelto, presumendolo in possesso dei requisiti richiesti per la sua affidabilità sancita dall’accreditamento. Ciò in quanto “consegnato” ad affidatari di compiti delicatissimi di diagnostica, cura e riabilitazione, senza però che gli stessi di frequente abbiano superato – se trattasi di struttura pubblica – il vaglio di percorsi concorsuali garanti del possesso dei requisiti richiesti, che inducono alla scelta intuitu rei dell’utenza tutta.
Una motivazione, questa, che si suppone sia stata alla base della decisione assunta, con una recente delibera di giunta di metà dicembre, dalla Regione Lombardia che ha messo al bando la pratica del ricorso e utilizzo dei medici a gettone. Una scelta che mi trova perfettamente d’accordo, tanto da desiderarne la reiterazione da parte di tutte le Regioni nell’esclusivo interesse del rispetto della dignità del ceto medico in organico del Ssn e della continuità delle garanzie di professionalità accertate, dovute nell’assistenza ai cittadini, specie di quelli in regime di ricovero.
Una situazione che va oltre l’incoscienza
Il problema appena evidenziato assume importanza su due diverse facce, ben distinte ma facenti parte della stessa medaglia. La prima è riferibile all’accreditamento (quanto ai requisiti c.d. ulteriori), ma anche all’autorizzazione ex art. 8 ter del d.lgs. 502/1992 (quanto a quelli c.d. minimi), prioritariamente di tutte le strutture erogatrici di assistenza ospedaliera (ma non solo), ovviamente sia pubbliche che private.
La seconda, conseguenziale alla prima, riguarda la copertura assicurativa del danno non solo professionale individuale, prodotto dal medico direttamente operante, ma anche riferita a quella della struttura interessata, che è corresponsabile.
Certamente a monte di tutto questo c’è il tema dell’accreditamento istituzionale (art. 8 quinques del vigente d.lgs. 502/1992), ma anche dell’autorizzazione all’esercizio. Per i privati con ovvia ricaduta negativa sulla efficacia del successivo contratto (art. 8 quinquies del vigente d.lgs. 502/1992).
Quegli istituti che – prescindendo dal rispetto degli attributi minimi sanciti per l’autorizzazione e da quegli ulteriori prescritti per l’accreditamento riguardanti i requisiti minimi e c.d. ulteriori strutturali e tecnologici – richiedono la valutazione da parte degli appositi organismi tecnici regionali e il rilascio di un apposito provvedimento della Regione che condivida e riconosca come idonea, soprattutto, l’organizzazione della struttura, tanto da renderla accreditabile. Quell’elemento di idoneità organizzativa fatto principalmente dalle figure professionali impegnate nel percorso diagnostico, terapeutico e chirurgico, in coerenza con il fabbisogno del personale della struttura interessata, con i titoli posseduti dagli operatori in servizio con forme contrattuali e retributive ben perfezionate, anche sulla base delle scelte vigilate e responsabili delle dirigenze delle Uoc impegnate.
Un ragionamento che deve essere fatto nel rispetto assoluto delle leggi e, quindi, del rinnovo ad hoc dei provvedimenti amministrativi di autorizzazione all’esercizio e di accreditamento, quale atto di natura concessoria, da rilasciarsi a cura delle Regioni a seguito altresì di ogni mutamento organizzativo della struttura interessata, tenuta all’uopo a richiederli, pena pesanti sanzioni amministrative che possono arrivare sino alla revoca.
Ciò allo scopo che ogni utente possa avere contezza che l’operatore che si trovi di fronte sia arrivato lì con la garanzia di un concorso pubblico superato (se trattasi di struttura pubblica) ovvero quantomeno (per tutte le strutture) con la presa d’atto e l’idoneità riconosciuta in un provvedimento regionale di alta amministrazione che ne sancisca la corretta organizzazione.
Conoscere per deliberare (Einaudi docet)
Una previsione, questa appena evidenziata, che impedirebbe, in caso di assenza degli anzidetti provvedimenti di revisione dell’accreditamento per rimodulazione organizzativa, il corretto e legittimo ricorso ai medici a gettone e simili. Di conseguenza, una siffatta mancanza determinerebbe l’inefficacia delle coperture assicurative, ove esistenti, che sull’esistenza aggiornata di tali provvedimenti fondano il loro obbligo risarcitorio. Un adempimento che rischia di portare quindi, in presenza delle più che evidenti nullità contrattuali di assicurazione, se vigenti, e in tempi di “auto-assicurazione”, fondata su accantonamenti appositi nello stato patrimoniale di tutte le aziende sanitarie, alla rovina il bilancio consolidato delle Regioni. Ciò in quanto le aziende sanitarie, così facendo, assumono l’autoritenzione integrale del rischio medico, rimanendo obbligate alla liquidazione del sinistro e delle spese legali conseguenti.
Il problema più grosso è che di tutto questo nessuna Regione ne abbia ancora tenuto conto.