Nell’ufficio che lo ospiterà ancora per qualche ora fa bella mostra di sé un ritratto di Josef Radetzky. Un personaggio singolare, per un medico. «Era il simbolo di un’amministrazione pubblica che funzionava. E ha lasciato a Verona una bellissima cinta muraria». Per Massimo Valsecchi, la sanità pubblica dovrebbe essere un po’ come la burocrazia degli Asburgo: snella ed efficiente, e con dei funzionari che sappiano immedesimarsi nel ruolo di «public servant».
Lui, «figlio d’arte» (il padre era ufficiale sanitario a Badia Polesine) responsabile del dipartimento di Prevenzione dell’Usl 20, dalla nascita della struttura (25 anni fa) e già direttore sanitario, sta per appendere il camice al chiodo: quello di oggi sarà il suo ultimo giorno di lavoro. «Ma so di lasciare tutto in ottime mani, siamo cresciuti molto».
Dottor Valsecchi, il compito principale del dipartimento è quello di vigilare sulla salute dei veronesi. Cos’è cambiato in questi 25 anni?
«C’è stato un sensibile miglioramento: si vede da indicatori come la mortalità infantile, ridottasi di molto e l’aspettativa di vita, sensibilmente cresciuta».
Ci sono aspetti negativi?
«Sì, purtroppo non sempre siamo stati ascoltati. Mi riferisco soprattutto all’ambiente e alla gestione del traffico. In ogni rapporto annuale abbiamo ribadito la necessità di intervenire sul verde urbano, aumentando le aree in città e di valorizzare i mezzi di trasporto sostenibili. Non è stato fatto molto, anzi si sono perse opportunità come la creazione di un percorso ciclopedonale all’interno della Passalacqua che potesse essere un collegamento alternativo tra il centro e Porta Vescovo. Si tratta di questioni che hanno un legame diretto con la salute: i parchi aiutano molto a mitigare l’isola di calore urbano, e di caldo, come si è visto quest’estate, si muore».
Lei in passato è stato critico sulla realizzazione del nuovo Polo Confortini a Borgo Trento. La pensa ancora così?
«Sbagliato insistere a fare l’ospedale praticamente in centro: è stato un abominio urbanistico. I risultati li vediamo adesso, con i problemi di parcheggio. Per strutture del genere c’erano posti migliori, penso a San Massimo».
E il resto della rete ospedaliera? Come la considera dopo il nuovo piano sociosanitario?
«Si sono chiusi forse troppo pochi ospedali: ricordiamo che averne tanti di piccoli è un rischio per la salute. All’Usl di Verona la riduzione è stata importante: pensiamo a Tregnago, a Cologna e a Soave. Altrove, invece no: è il caso di Bussolengo – Villafranca, un polo a due gambe che difficilmente verrà incontro alle esigenze dei cittadini. Purtroppo il campanilismo dei sindaci ha influito molto su questo processo».
Ora la nuova incognita della sanità è «L’azienda 0» che prevede una struttura regionale accanto ad una singola Usl per provincia. Come giudica questa idea?
«Bisogna essere molto attenti nell’applicarla. Il grande vanto del Veneto è quello di avere sempre avuto un approccio in grado di mettere insieme sanità e sociale. Ma se, nel primo caso serve una razionalizzazione dall’alto, nel secondo è difficile interloquire con il territorio, ossia con un centinaio di sindaci per provincia, quando si tratta di offrire servizi diffusi. Purtroppo vedo il rischio di un accentramento eccessivo. Da questo punto di vista servirebbe più federalismo».
Un’altra preoccupazione riguarda il rapporto tra sanità e società multietnica. Quanto c’è di fondato?
« C’è un totale scollamento tra le paure della gente e la verità dei numeri. Prendiamo la tubercolosi: nel ’94, in Veneto c’erano oltre 600 casi, ora siamo a 131. Certo, l’incidenza tra la popolazione straniera è maggiore, ma la situazione è totalmente sotto controllo».
L’Usl di Verona, e con essa il dipartimento di Prevenzione è stata pioniera nel campo della sospensione dell’obbligo vaccinale. A distanza di sette anni come giudica questa scelta?
«Finora si è rivelata una strategia giusta. L’adesione ai vaccini non è cambiata di molto, ma così facendo si sono neutralizzate le armi dialettiche di chi vi si opponeva in modo ideologico. Quel che rimane, è una sostanziale indifferenza: la gente dubita dell’efficacia del vaccino perché non vede più le malattie. È una paura ”liquida”, destinata a riemergere se ci sarà, in futuro, un’emergenza».
Il Corriere del Veneto – 15 settembre 2015