Aneddoti. «I giovani quando andavano in discoteca alla sera venivano allontanati dalle ragazze. Dicevano che puzzavano di chimica. Lavoravano tutto il giorno, immersi in nuvole di sostanze inquinanti». Rimpianti. «Qualcuno è scappato via. Ricordo quel giovane che aveva capito subito come andavano le cose. E’ andato in Australia dove si è laureato in ingegneria ma venne raggiunto anche lì da Marghera: un angiosarcoma del fegato si era insinuato in lui e dopo anni morì tra dolori atroci». Scoperte. «Per decenni al Petrolchimico la cinica legge della produzione e del profitto ha fatto scempio della dignità e dell’integrità dei lavoratori e dell’ambiente: il Cmv ha ucciso migliaia di persone». Oggi come ieri, 13 marzo 1998 – 13 marzo 2023, venticinque anni dall’apertura del processo al Petrolchimico: Felice Casson — che per la collana «Storia dei grandi segreti d’Italia» della Gazzetta dello Sport ha scritto «Marghera, la strage del Petrolchimico» — fu il magistrato che prese in carico la documentazione che un operaio dell’impianto del Cvm gli portò nel suo ufficio di piazza San Marco e iniziò ad indagare. «Era una mattina dell’agosto del 1996, Gabriele Bortolozzo bussò alla mia porta per denunciare una scia di morti. Aveva già presentato altri esposti che furono tutti archiviati. Ricordo che fece spazio sulla mia scrivania e depositò centinaia di carte. Io non sapevo niente, ho cominciato a leggere e ad indagare: capii subito che quei fatti gravi che sembravano impossibili alle porte di Venezia in realtà erano ancora peggiori di come erano stati presentati».
Cosa scoprì?
«Che gli operai erano carne da macello: ingannati, sfruttati e ricattati solo per la logica del profitto con patti di segretezza e complicità della politica».
Lei diceva che la parola d’ordine era silenzio?
«Tutti dovevano stare zitti: i vertici, i dirigenti, i sindacati che temevano la chiusura della fabbrica, ma anche i lavoratori che vedevano i colleghi ammalarsi e poi morire. Chi non lo faceva veniva isolato o spostato di reparto, come Bortolozzo».
E chi doveva controllare non ha mai detto nulla?
«E’ stato uno degli aspetti più preoccupanti: ispettori del lavoro, medici, Inail, Inps, Polizia giudiziaria, magistrati, magistrato alle Acque, polizia provinciale, amministrazione comunale, c’era una pletora di controllori che non ha mai controllato».
Quale è stata la cosa più difficile?
«Stabilire il nesso causale tra lavoro svolto e malattia. Era indispensabile, in precedenza tutti i processi sui morti in fabbrica erano finiti con l’assoluzione perché tutti dicevano di non sapere nulla».
E’ andato anche in America per scoprirlo e trovare i documenti.
«Cominciai da Lake Charles, nel profondo sud della Louisiana, dall’ufficio di Billy Baggett junior, un legale che avevo contattato alla ricerca di primi studi scientifici statunitensi sul Cvm/Pvc. Faceva parte di quella tipologia di avvocati così ben descritti nei libri di John Grisham e nel film Erin Brockovich, difensori di operai, di povera gente e dell’ambiente».
Trovò quello che voleva?
«In uno studio del responsabile del laboratorio per la ricerca industriale dell’Istituto di igiene del lavoro e per le malattie professionali del Ministero della Sanità dell’ex Urss del 1949 si evidenziava come fossero note le epatossicità del Cvm e la sua pericolosità per l’apparato respiratorio. Incredibile, già 47 anni prima la scienza aveva accertato e confermato quello che a Venezia stavamo faticosamente cercando e che Montedison continuava a negare».
E qui emerge il primo patto di segretezza.
«Tutto era noto alla Montedison e lo studio del 1949 era stato sequestrato anche negli archivi societari».
Senza Felice Casson si sarebbe mai arrivati al processo prima e alle condanne poi?
«Qui no, basta vedere cosa non si è fatto in altri petrolchimici d’Italia dove la situazione era anche peggiore, tutto finiva subito in archiviazione. La mia fortuna è stata quella di trovare una squadra di polizia giudiziaria e consulenti capaci ed autonomi che mi hanno permesso di trovare informazioni inimmaginabili».
Ebbe mai paura?
«No, venivo da anni e da processi contro stragisti, fascisti, servizi segreti che mi avevano portato ad avere anche la scorta».
Cosa provò alla lettura della sentenza di assoluzione?
«La sentenza si commentava da sola, lo dissi. Poi mi tolsi la toga e andai dalla parte degli operai e degli ambientalisti. Questo mi costò anche un’azione disciplinare avviata dall’allora ministro Castelli che poi si concluse con un nulla di fatto: venni assolto».
Due giorni prima della sentenza ci fu la transazione di 550 miliardi della Montedison: fu il più alto risarcimento di sempre. Cosa pensa?
«Erano certi di essere incastrati da tutte le prove. Gian Antonio Stella sul Corriere della sera scrisse: “Quella transazione era una prova”, penso sia la sintesi migliore».
Poi arrivò l’appello che ribaltò la sentenza: ci furono le condanne anche se molti reati ambientali andarono in prescrizione. Cosa cambiò?
«Nulla, non portammo nemmeno nuove prove, semplicemente il tribunale della Repubblica non aveva applicato le leggi. Nell’appello, poi confermato dalla Cassazione, nessuno dei 26 a giudizio è stato assolto con formula piena».
Ha mai parlato con il giudice Salvarani ?
«Mai, con certo persone non ho più avuto a che fare. Quella sentenza qualificava già le persone».
Cosa resta oggi?
«Oltre ai risultati processuali, che hanno portato anche a consistenti risarcimenti ai lavoratori, penso la presa di coscienza sociale e collettività della città rispetto ai temi ambientali e contro la chimica di morte».
Di quella Porto Marghera oggi non esiste quasi nulla.
«Poteva e doveva essere data una risposta almeno 30 anni fa, quando Eni decise di uscire dalla chimica. Ci sarebbe voluto un grande coraggio da parte della politica per sostenere questa linea, e una forza del sindacato, dando una alternativa agli operai. Ma ancora una volta si è rinnovato il ricatto occupazionale».
Si sente anche lei un po’ Erin Brockovich?
«La cosa che mi fa più piacere è che le persone mi ringraziano: per molti operai vedere i dirigenti e manager in tribunale è stata una liberazione per quanto subìto».
Il Corriere del Veneto