Il presidente della Fondazione Gimbe: “Vogliamo rimettere mano a un servizio sanitario che rispetti l’articolo 32 della costituzione e la legge 833/78 oppure vogliamo continuare con la logica della rana bollita? Io preferirei una parziale privatizzazione del sistema governata dal pubblico piuttosto che una privatizzazione strisciante con la creazione di una sanità a doppio binario: privata per chi se la può permettere e pubblica per i più poveri. È il momento di decidere quale futuro si vuole per il Ssn”
“È il momento di decidere quale futuro si vuole per il Ssn. Io preferirei una parziale privatizzazione del sistema governata dal pubblico piuttosto che una privatizzazione strisciante con la creazione di una sanità doppio binario: privata per chi se la può permettere e pubblica per i più poveri”.
Ne è convinto il presidente della Fondazione Gimbe Nino Cartabellotta che in questa intervista a Quotidiano Sanità fa il punto non solo su una manovra che mette in campo solo risorse “residuali” per la sanità, ma anche su altri temi di attualità quali l’autonomia differenziata che potrebbe rendere “incolmabile” il divario già esistente tra Nord e Sud.
Presidente Cartabellotta che ne pensa delle misure per la sanità previste nella manovra appena varata dal governo?
Se ci si aspettava un rilancio del finanziamento del servizio sanitario pubblico dobbiamo dire che le risorse messe in campo sono veramente residuali. Rispetto all’aumento di 2 miliardi di euro già fissato dalla precedente legge di Bilancio vengono stanziati solo ulteriori 2 miliardi, di cui almeno 1,4 mld verranno però assorbiti dai maggiori costi energetici. Alle Regioni rimarranno dunque solo poche centinaia di milioni di euro per poter affrontare tutta una serie di problematiche. Ricordiamo che oggi anche amministrazioni storicamente virtuose rischiano di finire con i conti in rosso a causa di spese legate all’emergenza Covid non adeguatamente finanziate, oltre al sopraggiunto forte aumento dei costi energetici. Durante la pandemia tutti erano concordi sulla necessità di rilanciare il Servizio Sanitario Nazionale (SSN): ora però, passata la fase emergenziale, sembra si sia tornati a relegare la sanità nel dimenticatoio.
È di questi giorni la notizia dello stato di agitazione dell’Intersindacale medica. Mancano misure adeguate per il personale?
Altro tema è quello dei nuovi Livelli essenziali di assistenza (Lea) ancora bloccati.
È vero, anche se è quasi ridicolo definire nuovi questi Lea visto che il loro aggiornamento risale al 2017. Abbiamo ancora un nomenclatore di specialistica ambulatoriale e protesica senza tariffe. Viviamo così nel paradosso di avere il paniere Lea più ricco d’Europa ma con uno dei finanziamenti più bassi per la sanità. Delle due l’una: o si aumenta il finanziamento pubblico o bisogna ragionare su un consistente “sfoltimento” dei Lea, riducendo tutele che nei fatti non vengono garantite in almeno mezzo Paese.
A proposito di differenze territoriale, cosa pensa del disegno di legge sull’autonomia differenziata?
Il tema era stato inaugurato già negli anni precedenti con le proposte avanzate da Emilia-Romagna, Veneto e Lombardia. Alcune delle misure che venivano proposte potrebbero essere estese e applicate a tutte le Regioni: penso ad esempio al superamento del tetto di spesa per il personale, ai contratti di formazione-lavoro per gli specializzandi e ad un diverso rapporto con le università. Altre, però, rischiano di introdurre ulteriori elementi di diseguaglianza organizzativa dai risvolti imprevedibili. E mi riferisco alla maggiore autonomia nel sistema tariffario di rimborso, remunerazione e compartecipazione o addirittura alla definizione del sistema di governance degli Enti del Ssn che attribuirebbero alle Regioni autonomie eccessive. Erano state avanzate anche proposte che io avevo definitivo ‘eversive’, tra cui la maggiore autonomia in materia di gestione del personale con la regolamentazione dell’attività libero professionale e la facoltà in sede di contrattazione collettiva di prevedere per i dipendenti incentivi e misure di sostegno. Si andrebbe così a creare un ulteriore livello di contrattazione sindacale a livello regionale che rischierebbe di creare diseguaglianze ed ulteriori migrazioni di professionisti da Sud verso Nord.
Altrettanto eversiva ritengo la maggiore autonomia legislativa, organizzativa e amministrativa in materia di fondi sanitari integrativi. Sappiamo che già la normativa nazionale frammentata sta favorendo oggi l’ingresso delle assicurazioni in un sistema di fondi sanitari integrativi nato con l’obiettivo di integrare quello che non era coperto dai Lea. Riconoscere l’autonomia alle Regioni su questo rischia seriamente di introdurre ulteriori elementi di privatizzazione. Ad ogni modo, l’autonomia differenziata deve passare dalla definizione dei Livelli essenziali delle prestazioni (Lep) – visto che non ci si può più basare solo sul criterio della spesa storica – e da un intervento deciso del Parlamento, senza l’obiettivo di accelerare i tempi.
Ma in gni caso penso che la sanità dovrebbe essere stralciata dall’autonomia differenziata. Già ora viviamo in un paese con 21 Servizi Sanitari differenti: riconoscendo ulteriori autonomie si rischia di spaccare in maniera incolmabile il divario esistente tra Nord e Sud.
Quali sono le proposte che Gimbe avanza a Governo e Parlamento per il rilancio della sanità pubblica?
Il piano di salvataggio che avevamo presentato già in passato si è trasformato in un piano di rilancio, sul quale abbiamo lanciato una consultazione pubblica che si concluderà a fine anno. Proviamo ad offrire alla politica un approccio di sistema: non ci può più limitare a tentare di risolvere problemi contingenti. Serve un piano progressivo di rilancio della sanità pubblica con un livello di finanziamento programmato su più anni. I Lea dovrebbero essere garantiti in tutto il Paese e, se questo non è possibile, si dovrebbe procedere ad un loro aggiornamento tempestivo per ridurli, magari estendendo l’intervento di una ‘sana’ sanità integrativa.
Occorre inoltre superare una volta per tutte la logica dei silos: serve una rete di servizi estesa, efficace ed efficiente a servizio dei cittadini. Un’offerta programmata non sulla domanda ma sui bisogni reali di salute della popolazione. L’obiettivo dovrebbe essere quello di superare le dicotomie tra ospedale e territorio e tra assistenza sanitaria e sociale. Oggi abbiamo una compenetrazione dei bisogni di assistenza che è destinata a crescere sempre più nel tempo. Serve poi una nuova regolamentazione nel rapporto pubblico-privato, decisamente sbilanciato in alcune Regioni. Quanto alla sanità integrativa, se ben utilizzata potrebbe diventare un pilastro a sostegno della sanità pubblica. Di fondo, però, la politica dovrebbe far chiarezza su un punto fondamentale.
Quale?
Vogliamo rimettere mano a un Ssn che rispetti l’articolo 32 della Costituzione e la Legge 833/78 oppure vogliamo farlo morire come la rana bollita? La politica deve chiarire una volta per tutte se è o meno in grado di mantenere un servizio sanitario interamente pubblico, equo ed universalistico o se occorre avviare riforme che vadano in una direzione diversa. Io preferirei una parziale privatizzazione del sistema governata dallo Stato piuttosto che una privatizzazione strisciante con la creazione di una sanità a doppio binario: privata per chi se la può permettere e pubblica per i più poveri. È il momento di decidere quale futuro si vuole per il Ssn. Spesso si dice che in Italia non riusciamo a spendere tante risorse in sanità perché il nostro Pil cresce poco: ma è anche vero che i Paesi che investono più risorse in sanità hanno poi Pil più alti anche grazie allo stato di salute della popolazione. Chi crede nella sanità come benessere della popolazione e come leva di sviluppo economico investe in questo settore invece di frammentare e sperperare risorse pubbliche in mance elettorali di varia natura. Non voler parlare mai, neanche in campagna elettorale, del futuro della sanità dimostra che le idee non sono chiare e che su questo tema scottante nessuno ha risposte chiare da dare. Perché in fondo, la crisi del Ssn è un grande problema sociale.
Giovanni Rodriquez
Quotidiano sanita