Nel contratto di governo il «taglio agli sprechi» occupa il primo posto nell’elenco degli interventi per finanziare Flat Tax, reddito di cittadinanza e stop alla legge Fornero. E precede la «gestione del debito» e l’«appropriato e limitato ricorso al deficit», tornato di strettissima attualità nelle discussioni di questi giorni. Ma non è solo il contratto a trasformare ancora una volta la «spending review» nel perno indispensabile per far tornare i conti della manovra. E le tensioni che percorrono il governo e il Mef confermano che la sfida non è semplice.
La ragione è matematica, prima che politica. Prima di partire, la manovra deve affrontare una sfida intorno ai 12 miliardi fra aumenti della spesa per interessi, spese obbligatorie ed impatto sul deficit della minor crescita. Altri 12,4 arrivano dallo stop alle clausole Iva, confermato ieri in coro dal Governo. Sul punto sono intervenuti il premier Conte, il ministro dell’Economia Tria ribadendo al Senato l’impegno sul punto assunto in primavera con le risoluzioni al Def, e i vicepremier Salvini e Di Maio. In questo contesto, senza un taglio di spesa da almeno 3-4 miliardi, la quadratura del cerchio rischia di rivelarsi impossibile. Anche a prescindere dalla «flessibilità» su cui Tria sta ragionando con Bruxelles. La linea ufficiale resta di fissare il deficit 2019 attorno all’1,6%, anche se nel confronto con la Commissione non è escluso che ci si possa avvicinare a quota 2%. Ma non sopra, come pure continuano a chiedere parti della maggioranza.
In ogni caso, per avviare davvero il programma di governo non c’è livello «appropriato e limitato» di deficit che tenga senza un’altra sforbiciata ai costi della macchina pubblica. La cifra da trovare è assai più bassa dei 30 miliardi promessi da Di Maio in campagna elettorale. Ma la sua ricerca è più difficile del previsto. Già prima dell’estate il titolare dell’Economia ha acceso la macchina chiedendo ai ministeri di inviare i propri programmi di revisione della spesa. Ma a pochi giorni dalla Nota di aggiornamento al Def il quadro delle risposte è tutt’altro che incoraggiante. Ma non è una novità.
Nel mirino dei commissari alla «revisione della spesa» sono sempre finiti i «consumi intermedi», cioè i costi di funzionamento della macchina pubblica (affitti, strumentazioni, forniture varie). Ma i costi sono sempre saliti, e sempre oltre gli obiettivi. Basta mettere in fila i Def degli ultimi anni per misurare il problema. Nel 2017 sono arrivati 3,4 miliardi sopra il budget, nel 2016 la spesa extra è stata di 2,1 miliardi, 3,1 l’anno prima e addirittura 5,6 nel 2014. E sarebbe andata ancora peggio senza il processo di centralizzazione degli acquisti con Consip, andato avanti fra mille resistenze. In valore assoluto, allora, i tagli si sono concentrati sulla spesa per servizi e sulle politiche previdenziali, oltre che sul pubblico impiego. Ma prima il rinnovo contrattuale e ora la previsione di un turn over generalizzato al 100% segnano il cambio di rotta: e nella Pa centrale, emerge dai dati della Ragioneria generale, il personale assorbe quasi l’86% dei «costi propri». Con questa voce in crescita, trovare risparmi veri è complicato, dopo i tre miliardi in tre anni assicurati dai ministeri con la scorsa legge di bilancio.
La «cura» ha invece colpito duro dalle parti degli investimenti, e questo si sa. Meno noto è però che la spesa effettiva, ogni anno, si è fermata molto sotto gli obiettivi già ridotti dai vincoli di finanza pubblica. Negli ultimi due anni gli investimenti fissi lordi reali hanno viaggiato due miliardi sotto i budget, e il futuro non promette bene. Il fondo pluriennale avviato con la manovra 2017 è ancora inceppato dalla mancata intesa con gli enti locali sulla sua ripartizione: e l’accordo tentato ieri in Conferenza unificata si è scontrato con le polemiche sullo stop al bando periferie. I sindaci hanno rotto i rapporti istituzionali con il governo (si veda pagina 20): e il riavvio è rimandato a data da destinarsi.
Il Sole 24 Ore