Premi assicurati ai dirigenti delle società pubbliche in perdita, purché abbiano ridotto il passivo. Rimandato alle Camere. Il decreto partecipate viene spedito dal governo per un secondo giro parlamentare, in cui raccoglierà un parere “rafforzato”, dopo quelli favorevoli già incassati nei giorni scorsi. Una procedura inusuale per una legge delega, seppur prevista dalla stessa riforma Madia all’articolo 16. Motivata dalle osservazioni in alcuni casi divergenti tra deputati e senatori, solo in parte recepite da Palazzo Chigi. Ancora dieci giorni dunque per la conversione in legge di questo provvedimento importante, destinato a sfoltire le società partecipate da 8 mila a mille.
Obiettivo che si sposta in là di due anni nel 2018 (e monitorato dal Mef), rispetto alla versione originale del testo bollinato dalla Ragioneria e inviato alle Camere (anche se il sottosegretario Angelo Rughetti nega lo slittamento: «Si parte nel 2017»). Per dare modo a Comuni ed enti di portare a termine il primo taglio rapido, entro sei mesi dalla legge. Per poi affondare in seguito la mannaia su poltrone, scatole vuote, sprechi. A saltare per prime saranno le società dove ci sono più consiglieri che dipendenti (circa 800). I criteri per la “cessione, chiusura, fusione o razionalizzazione” ricevono due sconticini: a rischiare sono quelle con fatturato sotto i 500 mila euro (da un milione) e con un rosso in quattro su cinque esercizi, ma solo se la perdita è non inferiore al 5% del fatturato.
La Corte dei Conti, dopo le polemiche dei mesi scorsi, viene salvaguardata nel suo ruolo di guardiana e sanzionatrice del danno erariale, anche per le società in house, da cui denunciava in gennaio di essere stata estromessa, all’indomani dell’approvazione preliminare del testo in Consiglio dei ministri, poi ritoccato. La gestione degli esuberi (i sindacati parlano di 150 mila lavoratori) viene affidata alle Regioni che poi inviano l’elenco dei non ricollocati all’Anpal, la nuova Agenzia per le politiche attive. E dunque tolta al Dipartimento della Funzione pubblica, inizialmente ingaggiato per il delicato compito.
Le società a controllo pubblico (dunque con partecipazione pubblica maggioritaria) nel frattempo non possono assumere a tempo indeterminato. Se hanno bisogno, pescheranno nell’elenco esuberi. Il divieto però viene addolcito e scade il 30 giugno 2018, anziché il 31 dicembre. Le stesse società dovranno rispettare il nuovo “equilibrio di genere”, con almeno un terzo di donne amministratici, calcolato sul totale delle nomine fatte nell’anno in tutte le partecipate dell’ente (oggi è sulla singola società).
Il tetto per gli stipendi dei manager, assicura il dicastero della Pubblica amministrazione, sarà quello valido per tutto il settore statale: 240 mila euro l’anno. Tuttavia nel testo esaminato ieri in Consiglio dei ministri i premi ai dirigenti vengono assicurati anche con le società in rosso, purché le perdite siano inferiori all’esercizio precedente. Dunque solo in casi eccezionali e quando sia dimostrato un miglioramento. Servirà comunque un decreto ad hoc per definire i bonus.
Paletti ancora più deboli nelle società non controllate, ma con una partecipazione sopra al 10% del capitale. Qui lo Stato o il Comune può solo “proporre” un tetto agli stipendi e alle buonuscite. Nell’elenco dei salvati dalla mannaia, finiscono anche le partecipate che gestiscono fiere, funivie, spin-off e startup universitarie.
Repubblica – 15 luglio 2016