Il tema del benessere psicologico nei luoghi di lavoro sembra allargarsi sempre di più. Ad ascoltare i lavoratori sei su dieci sperimentano malessere nella propria vita personale e vivono la stessa condizione in quella professionale. E viceversa. Non si tratta solo di sensazioni e impressioni, perché uno su cinque ha avuto una diagnosi di burnout. Col tempo, la consapevolezza dell’importanza dello stare bene al lavoro è uscita dall’orbita dei white collar, per entrare anche in quella degli operai, ma parlarne apertamente in azienda è ancora difficile.
Lo spettro emotivo
Considerando solo aziende private con almeno 10 addetti e mettendo a confronto le risposte di 483 white collars, di cui 65 dirigenti, e quelle di 217 blue collars, da un questionario realizzato da BVA Doxa per Mindwork, su un campione rappresentativo che fotografa «lo stato di milioni di persone», osserva Mario Alessandra, fondatore e ceo di Mindwork, emerge che per una quota rilevante di lavoratori lo spettro emotivo si conferma caratterizzato da sensazioni ed emozioni negative, come lo stress, la stanchezza, la preoccupazione e l’incertezza. Tra i motivi che influiscono maggiormente ci sono l’aumento dei prezzi e l’inflazione che riducono la capacità di spesa e la possibilità di fare esperienze, il caro bollette, forte soprattutto tra i blue collar, ed eventi catastrofici causati dai cambiamenti climatici. Ma non solo. In maniera diversa influiscono anche la mancanza di riconoscimento del proprio ruolo o di equità e il sovraccarico.
La dicotomia white e blue collar
Nelle iniziative che le imprese dedicano alle diverse popolazioni aziendali, gli operai e chi lavora allo sportello appaiono però ancora penalizzati rispetto ai lavoratori che svolgono mansioni impiegatizie remotizzabili. Tant’è che solo uno su due dice di lavorare in un’azienda che promuove almeno un’iniziativa per il proprio benessere psicologico e organizzativo. Anche perché è molto difficile declinare allo sportello e sulle linee produttive un tema come la flessibilità, sicuramente quello su cui le aziende hanno fatto maggiormente leva per migliorare il work life balance degli impiegati. Con pacchetti, concordati anche con i rappresentanti dei lavoratori, dove rientrano, per esempio, orari elastici in ingresso e in uscita, permessi e lavoro da remoto.
La nascita del manifesto
A sottolineare l’importanza del tema, c’è anche la nascita, proprio ieri, nella giornata mondiale della salute mentale, del “Manifesto per il benessere psicologico in azienda”, promosso da Mindwork e già sottoscritto dalle aziende del Mental Well-being Council, composto da Carrefour, Enel, Gruppo Cassa Centrale e Lundbeck Italia, le prime società promotrici e firmatarie del documento. «Prestare attenzione ai bisogni e ai vissuti delle proprie persone, accogliere le loro necessità e favorire una leadership consapevole dell’importanza della dimensione mentale costituiscono valori fondamentali per organizzazioni sane», sostiene Alessandra. Del resto il peso economico del malessere psicologico, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), è altissimo: ogni anno nel mondo causa una perdita di circa mille miliardi di dollari e 12 miliardi di assenze dal lavoro. In Italia le malattie mentali valgono il 4% del Pil tra spese dirette e indirette (si veda il Sole 24 Ore di ieri).
Ansia per il 62% di addetti
Considerando lo spettro emotivo, tra i white collar il 40% parla di stanchezza, il 37% di stress, il 33% di incertezza e il 30% di preoccupazione. Queste percentuali aumentano nelle risposte dei blue collar: a essere stanchi sono il 50%, stessati il 40%, preoccupati il 36% e a vivere nell’incertezza sempre il 30%. Va detto che non si tratta di quote maggioritarie, ma pur sempre piuttosto elevate e che hanno un impatto sulla vita, tant’è che il 62% dei lavoratori dice di convivere con sensazioni di ansia e uno su due, il 53%, di soffrire di insonnia per motivi stettamente legati al lavoro.
Il burnout
Nell’ultimo anno tre lavoratori su quattro hanno provato almeno uno dei principali marker del burnout, dalla sensazione di sfinimento, al calo dell’efficienza lavorativa, all’aumento del distacco mentale, al cinismo rispetto al lavoro. Si tratta di una percentuale che preoccupa, perché è in aumento di 14 punti rispetto al 2022. Il sintomo più diffuso è la sensazione di sfinimento. Un carotaggio tra i white collar della GenZ ha fatto emergere che il sintomo più frequente è il calo dell’efficienza lavorativa che si constata nel 56% dei casi. Non si tratta solo di opinioni perché una persona su cinque ha ricevuto una diagnosi di burnout. Tra i fattori che determinano questo quadro nel caso dei white collar c’è il sovraccarico lavorativo, come dice il 46% e il mancato riconoscimento (34%). I blue collar parlano invece di sovraccarico lavorativo nel 36% dei casi e di assenza di equità nel 36%. Quanto ai dirigenti è forte la sindrome dell’uomo solo al comando, tant’è che lamentano il mancato riconoscimento nel 41% dei casi e l’assenza di comunità nel 36% dei casi.
Le dimissioni
In tutto questo il vissuto psicologico delle persone ha un peso: il 41% dice infatti di non sentirsi libero di parlare del proprio malessere emotivo sul luogo di lavoro che si conferma come il meno adatto per esprimere il proprio disagio rispetto agli ambienti familiari. Mostrarsi vulnerabile di fronte ai colleghi sembra ancora un tabù che affrontano tre persone su quattro. Si tratta di elementi da non sottovalutare in azienda perché, a parità di stipendio, sono la principale causa alla base dell’abbandono di un luogo di lavoro per un altro, come dice oltre un lavoratore su due (54%). Una percentuale che risulta più alta tra GenZ (66%) e Millennials (59%). Nel work life balance si conferma un forte disequilibrio tra vita privata e lavoro, con la sensazione che le responsabilità e gli impegni di lavoro interferiscano nella vita privata e famigliare.
Il ruolo delle imprese
Nei possibili cambiamenti di questo quadro generale, il ruolo più importante è quello che i lavoratori attribuiscono alle imprese. Oltre 9 persone su dieci, il 96% del campione, dà importanza alla promozione del benessere psicologico da parte dell’azienda. Il rovescio della medaglia dice che il 64% degli intervistati, nel caso in cui dovesse cambiare azienda, ne preferirebbe una attenta al benessere psicologico. Se però andiamo a vedere cosa accade nelle imprese, la percentuale di quelle che non ha un servizio di supporto psicologico è pari al 67%. Laddove non è presente, il 73% delle persone lo valuterebbe positivamente.
Genitori e caregiver
Tra tutte, le due categorie di lavoratori che sembrano avere più bisogno di supporto sono i genitori e i caregiver, due ruoli che spesso si sovrappongono in quella che viene definita generazione sandwich. Per l’89% dei lavoratori e delle lavoratrici con figli, il ruolo genitoriale ha un impatto sul proprio benessere psicologico: uno su due dice di avere bisogno di misure di supporto da parte dell’azienda per la gestione dei figli (48%), ma solo un quarto lo riceve. Quanto ai caregiver, per l’88% il loro ruolo ha un impatto sul proprio benessere psicologico. Sei caregiver su dieci dicono di avere un’elevata necessità di supporto anche al lavoro, ma solo una minoranza (20%) sente di riceverlo.