Il Sole 24 Ore. «Cosa faremo in quel 5% di terreni sbloccati alla coltivazione dalla Commissione europea? Continueremo a fare soia senza diserbo, come sempre. Piantare altro mais oggi è rischioso, costa troppo e non sappiamo a che prezzo riusciremo a venderlo a settembre». Emilio Pellizzari è l’amministratore delegato di Agriberica, una cooperativa da 350 soci nel basso Vicentino che ogni anno produce 200mila quintali di cereali. Un player di non piccole dimensioni, insomma, in una delle regioni italiane, il Veneto, tra le più votate alla produzione di mais. Eppure, tra i suoi soci saranno pochi a rispondere alla chiamata della Ue che, con le misure varate mercoledì in deroga alla Pac, consente agli agricoltori (e solo per quest’anno) di sfruttare 4 milioni di ettari di aree a riposo in tutta Europa per aumentare la produzione di mais, grano o girasoli, oggi resi più cari e più introvabili dal conflitto in Ucraina.
Per una volta, la burocrazia non c’entra: la decisione della Ue è esecutiva da ieri e a breve sono attesi il decreto ministeriale italiano e la circolare operativa dell’Agea. La questione sembra piuttosto di opportunità. E tra gli agricoltori italiani oggi c’è grande incertezza su cosa sia meglio fare. Nemmeno su quanto siano effettivamente estese queste superfici nel nostro Paese, c’è chiarezza: secondo la Coldiretti si tratta di 200mila ettari, secondo Confagricoltura si parla di almeno 300mila, secondo qualcuno si limiterebbero soltanto a 60-70mila. Le aree si trovano prevalentemente in Emilia Romagna, Piemonte, Lombardia e Veneto. Ma non tutte queste terre sono adatte a qualsiasi cosa: «Grano in Italia non si può più fare, perché va seminato a settembre – spiega Vincenzo Lenucci, direttore dell’area economica di Confagricoltura – il mais ci servirebbe, per alleviare la carenza di mangimi, ma può essere coltivato solo dove c’è tanta acqua a disposizione. Eppoi, gli agricoltori potrebbero trovarsi a fronteggiare una mancanza di semi e di fertilizzanti sul mercato». Nel complesso, però, la Confagricoltura è ottimista: «Mi aspetto – dice Lenucci – che 250mila di questi ettari verranno utilizzati. Dall’Ucraina importavamo 800mila tonnellate di mais all’anno: per andare a pari, basterebbe la produzione di 80mila nuovi ettari».
Forniture ucraine a parte, l’Italia oggi è autosufficiente solo per la metà del granoturco che le occorre. E quest’anno, per colpa della siccità, rischia di raccoglierne ancora meno: «Nelle zone poco irrigue del Friuli Venezia Giulia prevediamo un calo del mais del 20%, in quelle più irrigue un calo del 5%», racconta Daniele Castagnaviz, alla guida di Granaio Friulano, una cooperativa cerealicola da 1,2 milioni di quintali all’anno fra cereali e semi oleosi. «Se utilizzeremo le terre incolte per fare più mais? Io penso che superfici seminate in più ci saranno, ma serviranno solo a dimezzare il calo della produzione regionale», sostiene Castagnaviz.
Il vero dilemma degli agricoltori oggi ha a che fare con i costi. Spiega Dino Scanavino, presidente della Cia-Agricoltori italiani: «Oggi avere mais è competitivo per via della speculazione, ma come saranno le quotazioni a settembre, quando ci sarà il raccolto? Il granoturco in questi giorni ha raggiunto anche i 410 euro a tonnellata, ma negli ultimi anni il suo prezzo è stato di 190-200 euro alla tonnellata. Tra rincari dell’energia e dei fertilizzanti, seminare mais oggi costa attorno ai 300 euro alla tonnellata: se a settembre le quotazioni tornano al loro andamento storico, gli agricoltori sono rovinati. Ci vorrebbe un’assicurazione per coprire il rischio di una riduzione delle quotazioni», dice Scanavino. Una provocazione, ma non troppo. Intanto nella sua regione, il Piemonte, dalle riunioni per decidere che fare si esce senza aver deciso niente. «Da ultimo però vedrà che qualcosa su quelle terre incolte finiremo col mettercelo – dice Scanavino – conosco bene la mentalità contadina: un agricoltore, se può, semina sempre».
Prandini (Coldiretti): «Attenzione alle deroghe, esagerando crolla la qualità degli alimenti»
Su che cosa occorre vigilare?
Non è tanto l’importazione in Europa di mais o di soia Ogm che ci preoccupa. Su queste due materie prime non eravamo autosufficienti nemmeno prima della guerra, e di prodotti Ogm ne importavamo già. Il problema è se per esempio, a un certo punto, l’Unione europea decidesse di derogare ad altri parametri, per esempio quello del limite massimo di aflatossine tollerate per il mais, che nella legislazione degli Stati Uniti è di dieci volte più permissivo. Le aflatossine sono contaminanti cancerogeni, che alcuni anni fa ci costrinsero in Italia a distruggere i raccolti per evitare ogni rischio. Ad oggi il mais che importiamo dagli Usa deve rispettare il limite europeo più rigoroso. Ma se un domani, per la carenza di mangimi, l’Ue dovesse derogare a questi limiti pur di assicurarsi forniture extra dall’America, per il consumatore europeo sarebbe un evidente danno alla qualità.
Intravede un rischio concreto in questo senso?
Per ora non è stato deciso nulla, ma è anche vero che la Commissione sembra aprire ai ragionamenti in questo senso. Non possiamo permetterlo. Sulle etichette alimentari, per esempio, seppur a livello soltanto italiano, qualcosa di molto simile all’abbassamento di un’asticella è già successo. Poiché l’olio di girasole sta diventando irreperibile, dato che in gran parte arriva dall’Ucraina, il ministero dello Sviluppo economico ha autorizzato le industrie italiane a mettere in etichetta la dicitura generica “olio di semi vari”. Dietro questa indicazione però si può nascondere anche il ricorso all’olio di palma, tra i responsabili del disboscamento delle foreste vergini nel Sudest asiatico. Il tutto senza che il consumatore ne sia messo a conoscenza.
Dopo queste misure per la sicurezza alimentare e il sostegno agli agricoltori, che cosa si aspetta ancora dall’Europa?
L’Europa segue quello che gli Usa ci stanno chiedendo in fatto di sanzioni alla Russia. Mi aspetto che ci sia la stessa attenzione nell’arginare i fenomeni speculativi che stanno interessando il comparto cerealicolo. Secondo le stime elaborate dalla Coldiretti, nel settore dei cereali il prodotto non manca: quando arriveremo ai raccolti, avremo scorte per un 8-9% di riserve. Il problema è che chi ha i cereali oggi non li immette sul mercato, con l’unico obiettivo di far schizzare in aria i prezzi.
Cosa pensa dei 4 milioni di terreni a riposo sbloccati dalla Commissione? Qualcuno dice che, all’atto pratico, quelli coltivati in Italia non saranno poi molti…
Nel nostro Paese ammontano a 200mila ettari e io penso che verranno usati tutti, eccome. L’unica valutazione da fare è relativa alla loro ubicazione: là dove sarà possibile coltivarli subito, sono pronto a scommettere che verrà seminato il mais, di cui il nostro Paese è dipendente dall’estero per il 50% del fabbisogno. E per quanto evolveranno i prezzi, non torneranno certo alla normalità nell’arco di qualche settimana. Di qui a settembre, insomma, il mais non si deprezzerà.