Ministro, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità di 5 articoli della legge delega di riforma della pubblica amministrazione del 2015, perché prevede che i relativi decreti attuativi siano emanati con il semplice parere non vincolante delle Regioni anziché con un’intesa formale con le stesse. Ma non lo sapevate che col Titolo V della Costituzione, che prescrive la legislazione concorrente fra Stato e Regioni su molte materie, era meglio fare l’intesa? «Assolutamente no – risponde il ministro della Funzione pubblica, Marianna Madia -. Rispettiamo le sentenze, ma la Corte ne ha fatta una evolutiva, cioè ha cambiato orientamento. Quando abbiamo scritto la delega la giurisprudenza era un’altra: prevedeva il coinvolgimento delle Regioni a valle. Non a monte, con l’obbligo di intesa con le Regioni prima del varo dei decreti attuativi. Tanto più che l’intesa formale richiede l’unanimità e quindi basta che una Regione non sia d’accordo e la riforma non si può attuare».
Ma il governatore della Toscana, Enrico Rossi (Pd), che pure è favorevole alla riforma, dice che le Regioni vi avevano avvertito del rischio incostituzionalità. Perché non ne avete tenuto conto?
«Dobbiamo essere chiari: quando è stata scritta la delega non c’era alcun rischio di incostituzionalità. E abbiamo avuto sempre pareri favorevoli dalla Conferenza Unificata dove sono presenti le Regioni e nel varo dei decreti attuativi abbiamo comunque tenuto conto delle osservazioni contenute negli stessi pareri».
C’è chi dice che ora si bloccherà anche il rinnovo dei contratti pubblici. È così?
«La situazione si é complicata perché la sentenza arriva nel mezzo di una trattativa con i sindacati. Ho convocato i segretari di Cgil, Cisl e Uil per mercoledì al fine di verificare le condizioni per arrivare a un accordo per sbloccare i contratti. È prevista una parte economica, gli aumenti medi di circa 85 euro, e una parte normativa per modificare alcuni istituti, come la valutazione o il salario accessorio. Abbiamo la possibilità di inserire queste modifiche nel testo unico sul pubblico impiego, la cui scadenza è fissata per febbraio. Ma ora, dopo la sentenza, bisogna capire come posso impegnarmi sulla parte normativa, se prima non raggiungo l’intesa con tutte le Regioni. E verificare, come dire, se il governatore del Veneto Zaia è d’accordo. Perché se non lo fosse, si bloccherebbe tutto»
Allora mercoledì niente incontro con Camusso, Furlan e Barbagallo?
«Li sentirò al telefono e decideremo. A questo punto dobbiamo capire quanto la sentenza incida sul complesso dell’eventuale intesa».
Non si possono dare gli 85 euro e fare poi la riforma normativa?
«Le due parti sono inevitabilmente connesse».
Che ne sarà della riforma della pubblica amministrazione, dopo la sentenza?
«Il problema è limitato a 5 dei 18 decreti legislativi finora approvati. Tre di questi sono già in vigore. Riguardano la riduzione delle partecipate, la licenziabilità dei “furbetti del cartellino” e l’istituzione di un elenco nazionale dei direttori sanitari: 200 persone che gestiscono 113 miliardi di spesa ogni anno. Su questi tre decreti andrò, come chiede la sentenza, nella conferenza Stato-Regioni per avere un’intesa e poi, se Zaia non si metterà ancora di traverso, presenterò decreti correttivi e le riforme andranno avanti. Gli altri due, dirigenza e servizi pubblici locali, erano stati approvati giovedì in consiglio dei ministri, ma dopo la sentenza, non li abbiamo mandati al Quirinale e non vedranno la luce».
Mezza riforma nel cestino dopo due anni di lavoro.
«Assolutamente no mezza riforma, ma erano certo decreti importanti. Prevedere più concorrenza nei servizi pubblici locali, a cominciare dai trasporti, e che dirigenti non meritevoli non restino al loro posto avrebbe portato grandi vantaggi ai cittadini e alle stesse autonomie locali. Il paradosso di questa vicenda è che, anche se sono tutti d’accordo su un intervento – governo, Parlamento, 8mila comuni, il Consiglio di Stato, 19 Regioni su 20 – basta il no di una sola Regione per mandare a picco tutto il lavoro fatto. Ma così non vincono le autonomie locali bensì il potere di veto».
Ci sarà bisogno di modificare anche la legge delega?
«No. La sentenza dice che l’incostituzionalità si può sanare con l’intesa sui decreti».
Ministro, la sentenza della Consulta è del 9 novembre, ma è stata resa nota venerdì. Possibile che il governo non sapesse della bocciatura?
«Non sapevamo assolutamente nulla».
Come si sente dopo questa sconfitta?
«Ancora più impegnata sulle ragioni del sì al referendum costituzionale. Referendum che non solo modifica il Titolo V, eliminando la legislazione concorrente tra Stato e Regioni e quindi questo tipo di contenziosi, ma cambia anche il procedimento legislativo. Nel nuovo Senato, infatti, le autonomie locali potranno intervenire sulle leggi di loro interesse ma senza bloccare il potere decisionale della Camera».
Se vincesse il sì sarebbe meglio per la sua riforma o in ogni caso bisognerebbe ricominciare da capo?
«Anche se su dirigenza e servizi pubblici locali bisognerebbe comunque ricominciare da capo, non ci sarebbe più il rischio che una Regione possa bloccare tutto».
Zaia, parla di «sentenza storica» che ha sconfitto la pretesa che i direttori della Asl fossero scelti sulla base di indicazioni nazionali.
«Innanzitutto il decreto legislativo di cui parla Zaia ha ricevuto il parere favorevole della Conferenza unificata e noi abbiamo recepito le osservazioni fatte. La riforma, ripeto, prevede che i 200 direttori sanitari che sottolineo gestiscono 113 miliardi debbano avere requisiti di assoluta professionalità e siano scelti dal presidente della Regione all’interno di un elenco nazionale trasparente. Mi sembrano norme assolutamente ragionevoli».
Ministro, pensa di aver fatto qualche errore?
«No, né tecnicamente né politicamente. Penso sia un valore incidere sulla riduzione delle partecipate, sui criteri di nomina dei direttori sanitari, sulle sanzioni per chi truffa lo Stato e continua a mantenere il posto. Ma noi andiamo avanti con tranquillità e determinazione. Per questo sarà importante che passi il referendum, anche per superare le tante resistenze al cambiamento».
Se il 4 dicembre vincerà il no, che cosa accadrà?
«Che restiamo fermi e che, per esempio, una sola Regione potrà ancora bloccare l’innovazione di un Paese intero».
Enrico Marro – Il Corriere della Sera – 27 novembre 2016