Non c’è dubbio che nel breve periodo i macroaccorpamenti costino di più e costituiscano un impegno organizzativo che non può essere delegato alla sola direzione strategica della Asl accorpante. Servono professionalità molto elevate, che non si improvvisano e sono impensabili senza un grande investimento tecnologico e di risorse umane. Nonostante la mancata riforma costituzionale del Titolo V, non c’è dubbio che la sanità italiana stia lentamente cambiando pelle. Lo dimostra il processo di accorpamento delle Asl. Un processo non imposto a livello centrale, ma inesorabile, una sorta di passa parola tra Regioni, che pure hanno adottato modelli organizzativi diversi. In realtà, il sistema è cominciato a cambiare radicalmente non già a seguito della riforma del Titolo V, avvenuta nel 2001, ma nel 2000, a seguito del cambiamento del sistema di finanziamento, con il Dlgs 18 febbraio 2000 n 56 (“Disposizioni in materia di federalismo fiscale, a norma dell’articolo 10 della legge 13 maggio 1999, n 133”).
Dlgs che ha abolito il Fondo Sanitario Nazionale, sopravvissuto limitatamente al fondo di “perequazione” (articolo 7), individuando le fonti di finanziamento regionali (sostanzialmente Irap e IVA).
Ciò ha comportato la soppressione dei trasferimenti statali alle Regioni in materia sanitaria e la contemporanea introduzione del sistema compartecipativo regionale, con il relativo obbligo delle Regioni di provvedere alla copertura dei disavanzi prodotti. Infatti, lo spostamento sul finanziamento regionale è stato determinato dall’esigenza di allocare presso l’organismo regionale sia le decisioni di spesa che di prelievo e di imporre una maggiore responsabilizzazione economica e politica.
A questa nuova situazione, oltre la metà delle Regioni italiane (quasi tutte quelle del nord, con l’eccezione di Liguria e Piemonte che si sono imbattute nel piano di rientro, ormai superato dalla prima e in fase di definitivo superamento per la seconda) e una del sud (Basilicata), hanno reagito attivando un progressivo efficientamento del sistema per rendere i loro SSR sostenibili, anche attraverso un progressivo accorpamento delle strutture sanitarie.
Le restanti regioni del centro Sud si sono dovute allineare ad una normativa piuttosto rigida (quella, appunto, dei piani di rientro regionali, prevista per la prima volta dalla legge 30 dicembre 2004 n. 311) che, tuttavia, al di là delle criticità collegate al blocco del turn over e ad una politica talora più orientata a profili economici che alla tutela dei livelli di assistenza, ha finito, con il tempo, per creare una governance omogenea per le regioni in piano di rientro, compresa quella collegata alla revisione delle reti sanitarie, attraverso l’attività svolta dai ministeri affiancanti (ministero della Salute e ministero delle Finanze), chiamati ad approvare i piani di rientro regionali e a monitorare i singoli provvedimenti attuativi degli stessi da parte delle regioni (si pensi ai protocolli d’intesa per le Aziende universitarie, agli atti aziendali, alle dotazioni organiche, alle deroghe per l’acquisizione del personale, alle verifiche contabili dei disavanzi, ai controlli sui tempi di liquidazione delle fatture, alla verifica sui livelli di assistenza assicurati dalle regioni in piano di rientro, tanto per fare alcuni esempi degli ambiti di verifica).
Personalmente sono convinta che una ulteriore positiva scossa al sistema sarà data dall’applicazione della recente normativa sui piani di rientro aziendali, introdotti dalla legge 28 dicembre 2015 n 208, che ha imposto l’obbligo di adozione e attuazione di un piano di rientro per le aziende ospedaliere o ospedaliero-universitarie, gli IRCSS pubblici e gli altri enti pubblici che erogano prestazioni di ricovero e cura, sul presupposto, da un lato, della ricorrenza di un valore soglia di disavanzo superiore al 10 per cento dei ricavi (ridotto al 7 per cento dalla emenanda legge di bilancio 2017) o, in valore assoluto, a 10 milioni di euro (ridotto a 7 milioni dalla menzionata legge di bilancio 2017), e, dall’altro, congiuntamente o disgiuntamente, del mancato rispetto dei parametri relativi a volumi, qualità ed esiti delle cure, tenuto conto di quanto previsto dal regolamento di cui al decreto del Ministro della salute 2 aprile 2015, n. 70 , recante la definizione degli standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi relativi all’assistenza ospedaliera.
A decorrere dal 2017, le disposizioni dei piani di rientro aziendali si applicheranno anche alle aziende sanitarie locali e ai relativi presìdi a gestione diretta, ovvero ad altri enti pubblici che erogano prestazioni di ricovero e cura, individuati da leggi regionali, che presentano un significativo scostamento tra costi e ricavi ovvero il mancato rispetto dei parametri relativi a volumi, qualità ed esiti delle cure.
Non c’è dubbio, quindi, che in un sistema complesso come quello sanitario, strettamente dipendente dai vincoli di bilancio, i sistemi di finanziamento del SSN adottati a far data dal 2000 abbiano finito per indirizzare non poco la ricerca di nuovi modelli organizzativi che rendessero più sostenibile ed efficace il pianeta sanità. Le Asl, a differenza delle aziende ospedaliere che vengono remunerate a prestazione, hanno una remunerazione per quota capitaria ponderata, con la quale devono garantire – in via diretta, o tramite prestazioni acquisite da soggetti accreditati, nonché tramite convenzioni con la medicina di base – la prevenzione e l’assistenza distrettuale, ovvero i LEA finalizzati all’assistenza territoriale e alla specialistica, nonché la copertura della farmaceutica territoriale.
Di massima, le regioni, ai fini della ripartizione del finanziamento indistinto tra le aziende sanitarie locali, mutuano i criteri adottati dal Ministero della salute per la ripartizione del FSN tra le regioni, secondo i livelli e i sottolivelli essenziali di assistenza, pesati con le fasce di età della popolazione residente al fine di determinare equamente il fabbisogno sanitario espresso dalla popolazione (5% per prevenzione, 51% per assistenza territoriale, da suddividere in sottolivelli tra medicina di base, farmaceutica, specialistica ambulatoriale, territoriale, e 44% per ospedaliera). In tale prospettiva, diversamente da quanto avviene nei rapporti tra le aziende ospedaliere remunerate a “prodotto”, il finanziamento su base capitaria non porta le asl a “competere” con le altre asl per l’acquisizione delle risorse finanziarie regionali, in quanto l’erogazione dello stesso finanziamento è comunque assicurata in base a driver correlato non alla produzione bensì alla popolazione.
In altre parole, la quota capitaria viene erogata a prescindere dalla valorizzazione quali-quantitativa degli outcome e, pertanto, trattasi di sistema di remunerazione destinato a funzionare solo nel caso di forte regia regionale di verifica e controllo dei LEA erogati.
Da un lato, l’assenza di evoluti e condivisi indicatori per misurare la reale efficienza delle prestazioni territoriali, dall’altro, il difficile rapporto con la medicina di base, dall’altro ancora, la difficoltà, in alcune regioni, a stabilire reali e strutturati rapporti di committenza tra asl e assistenza ospedaliera esterna alle asl, sia per i servizi direttamente forniti, che per quelli acquistati tramite soggetti accreditati lungo tutta la filiera della continuità assistenziale, rendono spesso i contesti regionali ospedalocentrici, con rischio di erogazione di prestazioni inappropriate e costose.
Senza un nuovo rapporto tra ospedale e territorio, sancito dal Patto della Salute e dal Regolamento sugli standard relativi all’assistenza ospedaliera, non si possono contenere i ricoveri ospedalieri inappropriati né dare continuità all’assistenza né prevenire, attraverso programmi di screening mirati, la promozione di stili di vita salutari.
Per favorire un rinnovato rapporto tra ospedale e territorio, il primo livello di intervento è quello regionale, relativo alla programmazione della prevenzione e a quella delle committenze, alla creazione delle reti, alla sinergia tra strutture, agli accordi con i MMG e, soprattutto, ad una evoluzione dei servizi di ICT nel governo clinico ( connessione in rete di tutti gli operatori e le strutture sanitarie regionali, prenotazione diffusa delle prestazioni, registrazione dei referti e comunicazione ai MMG degli eventi sanitari dei loro pazienti tramite i fascicolo sanitario elettronico). L’intervento regionale, che richiede investimenti consistenti, presuppone una evoluzione dei servizi di ICT nel governo clinico anche in chiave intra-organizzativa ( informatizzazione della cartella clinica, integrazione dei servizi di diagnostica, informatizzazione della somministrazione dei farmaci, etc. ).
Il secondo intervento è tra ospedale e territorio, lungo tre direttrici: 1) prevenire 2) intercettare la domanda sul territorio prima che arrivi in ospedale 3) assicurare continuità di cura attraverso programmi di dimissione protetta, disponibilità di strutture intermedie, programmi di ospedalizzazione domiciliare, strutture nel territorio gestite da MMG.
In questa prospettiva, è inutile che tutti gli operatori del sistema facciano tutto. Gli ospedali di secondo livello devono fare soprattutto il secondo livello e gestire per livelli di complessità funzionale il rapporto con il territorio. Per arrivare a questo risultato è necessario condividere percorsi clinici di continuità assistenziale e collegamenti informatici che rendano agile lo scambio di informazioni. Grande impulso deve essere dato alla telemedicina, poco costosa e molto efficace, previa risoluzione dei problemi connessi alla remunerazione dei fattori produttivi necessari per realizzarla.
E’ evidente che in questo contesto i macroaccorpamenti delle Asl, di per sé, non implicano necessariamente miglioramenti del sistema sanitario, né maggiore sostenibilità dello stesso.
Inoltre, i macroaccorpamenti necessitano di professionalità molto elevate, che non si improvvisano e sono impensabili senza un grande investimento tecnologico e di risorse umane. Occorre investire nella creazione e formazione di management intermedio (ingegneri clinici, gestionali, direttori sanitari, di distretto e di presidio orientati alla programmazione sanitaria, con formazione multi specialistica), in misure di controllo di gestione che favoriscano immediate azioni correttive, in organizzazioni e monitoraggi per processi clinici e gestionali, piuttosto che per singola struttura, in manager di altissimo profilo tecnico, in grado di governare una rete complessa quale quella di ambito territoriale cosi ampio.
Non c’è dubbio che nel breve periodo i macroaccorpamenti costino di più e costituiscano un impegno organizzativo che non può essere delegato alla sola direzione strategica della asl accorpante. E credo sia anche il momento di abbandonare populismi relativamente alle retribuzioni di questi super manager. Se vogliamo trovare persone all’altezza, queste vanno selezionate in maniera rigorosa, verificate, costantemente formate e aggiornate e adeguatamente retribuite.
Tiziana Frittelli – Vice presidente Federsanità – Qs 11 dicembre 2016