Michele Bocci. È arrivato in Sierra Leone prima che scoppiasse l’epidemia. Ha visto le prime persone ammalarsi e morire nel dolore delle emorragie, ha incontrato la paura negli occhi dei suoi compagni infilati nelle tute protettive prima di entrare in zona rossa, ha salutato uno di loro che partiva per lo Spallanzani di Roma dentro una barella speciale. Luca Rolla di Emergency sta al fronte sin dall’inizio.
È arrivato in Africa con l’associazione di Gino Strada per un altro motivo, per gestire un ospedale traumatologico da infermiere di rianimazione. Poi è esplosa la malattia più spaventosa, Ebola, ed è cambiato tutto. Sono arrivati malati sofferenti e sanguinanti in cerca di aiuto, i colleghi europei e africani si sono fatti avanti per dare una mano. A settembre Rolla ha contribuito ad aprire un centro dedicato alla malattia, che in questi giorni sarà affiancato da uno ancora più grande: 100 letti.
La rivista “Time” ha messo in copertina le persone che combattono l’Ebola. Secondo il settimanale siete i personaggi dell’anno. Cosa ne pensa, sentite la gratitudine dell’Occidente?
«Non siamo eroi, quello che sentiamo sono solo le gambe stanche la sera prima di andare a letto e la mente piena di pensieri su ciò che dobbiamo fare il giorno dopo. Abbiamo davvero poco tempo per riflettere su quello che dicono di noi».
Lei era in Sierra Leone prima dell’esplosione dell’epidemia. Quando se ne andrà?
«Spero quando sarà finita. A volte immagino il rientro, vorrei rivedere la mia città, Genova. Poi mi dico che in Italia non starei tranquillo, penserei ai miei compagni impegnati in Africa e allora passa. C’è bisogno di noi in questa terra, dove Ebola distrugge le famiglie».
Dopo tanto tempo si è in qualche modo abituato a questo lavoro?
«A vedere la sofferenza delle persone malate, il sangue delle emorragie, non ci si abitua mai. E purtroppo questo virus uccide la maggior parte degli infettati. Dal nostro centro sanitario ogni giorno escono più cadaveri che persone guarite. In Sierra Leone la mortalità è superiore al 70% ma in Occidente, quando sono state seguite le persone evacuate dall’Africa, è scesa al 25%. Con il nostro nuovo centro speriamo di avvicinare le due percentuali, migliorando la qualità delle cure ».
Come fate ad andare avanti di fronte a tutte quelle morti?
«Intanto pensiamo ai momenti più belli, alla gioia di vedere persone che credevamo spacciate e invece guariscono».
In una situazione del genere, capita che qualcuno crolli e vada via?
«È successo che dei professionisti abbiano concluso prima delle 11 settimane standard la loro missione. Per quanto ci si possa preparare, non si sa mai se si è veramente pronti finché non si arriva qui e si vede la realtà sul campo. Il lavoro è pesante, si affrontano pazienti critici, che soffrono e muoiono in un contesto di grande povertà. La componente emotiva è molto forte».
Lei ha paura?
«Tutti i giorni. Viviamo in una comunità affetta dall’Ebola, una malattia finora poco conosciuta e terribile. Temiamo per i pazienti e per noi. Per questo la vita sociale che facciamo è zero. Dopo il lavoro, abbiamo spazi comuni con alcuni colleghi ma dobbiamo comunque rispettare regole di sicurezza. I protocolli che dicono come avvicinarsi ai pazienti sono la nostra arma principale».
La sua famiglia?
«La mia compagna è qui con me, lavora nella farmacia dei nostri ospedali».
Cosa ha pensato quando il vostro collega si è ammalato?
«Mi sono preoccupato per lui, si tratta di una persona con la quale ho condiviso tanto. Oltre a cercare di curarlo abbiamo provato a capire se c’era un problema nel nostro sistema di sicurezza. Una falla avrebbe significato avere molti colleghi malati, non solo uno. Ma ora sono passate tre settimane, il tempo dell’incubazione, e non ci sono state altre positività al virus».
Il Corriere della Sera – 12 dicembre 2014