Ottimismo ma anche diffidenza verso chi ha “la tentazione di rimettere in discussione tutta la partita del Patto”. L’accordo è vicino. Sul tavolo la spending review interna per bruciare sul tempo i tagli di Cottarelli. La questione ticket e quella della riforma del territorio. Ma anche gli investimenti e una nuova politica del personale che parta dalla definizione di standard precisi per medici, infermieri e amministrativi. E infine una nuova governance del sistema che riveda i rapporti di forza tra Governo e Regioni. Compresa la possibilità di intervenire dove il management è inadeguato. Patto per la Salute, spesa sanitaria, spending review, riforma del territorio e standard per il personale sanitario. Ma anche responsabilità professionale, ticket e nuovo ruolo del ministero della Salute. Questi i temi sul tappeto per Beatrice Lorenzin, un ministro “innamorata” della sanità, come lei stessa si è definita. Le tabelle del Ministero della Salute sul finanziamento del Ssn
E’ un amore nato in questi primi nove mesi di Governo quello di Beatrice Lorenzin. “Ho imparato ad amare la sanità perché vi ho trovato una complessità di saperi e di opportunità straordinaria. La sanità è sicuramente salute e assistenza e quindi questione di vita e benessere per tutte le persone. Ma la sanità è anche uno straordinario volano di opportunità per il Paese e la sua economia. Investire in sanità vuol dire investire nella vita ma anche nella ricchezza del Paese. E con questa logica, per la prima volta, inseriremo la sanità e le sue strutture nel decreto di coesione e sviluppo che sta mettendo a punto il ministro Trigilia. E parliamo di miliardi di euro di investimenti per ammodernare il nostro sistema sanitario”.
Ma oggi la priorità dell’agenda è senza dubbio il Patto per la Salute con le Regioni. L’atto che dovrà sancire la ripresa del settore dopo anni di tagli e disinvestimenti. E quindi è da qui che partiamo con la nostra intervista.
Patto salute. Ministro Lorenzin, ci siamo veramente?
Penso proprio di sì. Con le Regioni stiamo lavorando a tamburo battente. Il Patto è in fase operativa. Ma non vorrei che da qualche altra parte ci fosse invece la tentazione di mandare a monte tutta la partita.
Cioè?
Lo dico chiaramente. Il Patto si basa sulla certezza di un budget per la sanità emersa dal Def di dicembre, dalla legge di stabilità e confermata dallo stesso premier Letta. Grazie a questo noi abbiamo oggi un fondo sanitario ben individuato per fare il Patto e le cifre sono: 109,902 miliardi per il 2014, 113,452 miliardi nel 2015 e 117, 563 miliardi nel 2016 (vedi approfondimento). Chiaramente con una clausola di salvaguardia implicita, legata al ciclo dell’economia, consapevoli del fatto che se dovessimo nuovamente trovarci sotto pressione con il Pil ancora in calo, sarà obbligatorio risederci attorno al tavolo e ridiscutere il tutto. Ma oggi queste sono le cifre e su queste non torno indietro.
Molti soldi…
Attenzione sono le risorse programmate che già scontano i tagli di 25 miliardi effettuati con le spending di Tremonti e Monti, calcolando solo gli effetti nel periodo 2013/2016. Quindi per la sanità non c’è un euro in più a quanto previsto dal quadro normativo vigente.
D’accordo ma allora a chi si riferisce quando parla di “tentazione di mandare tutto a monte”?
A tutti coloro che non si rendono conto della complessità del sistema sanitario e delle sue dinamiche e della stringente interconnessione tra ogni settore di spesa che rende estremamente pericoloso operare ancora con la logica del taglio lineare. Il sistema non reggerebbe più e rischierebbe il collasso. Senza contare le sfide che abbiamo davanti sulla farmaceutica con l’imminente ingresso di nuovi farmaci importanti e costosi (basta pensare all’epatite C e ai prodotti in arrivo nel 2014 capaci di eradicare il virus ma che avranno un impatto economico di 3 miliardi di euro l’anno), sulla medicina personalizzata e la sfida delle sfide per essere protagonisti e non soggetti passivi dell’apertura dei confini sanitari che si è venuta a creare con la direttiva sulla medicina transfrontaliera. Il nostro orizzonte non sarà più la mobilità interna ma quella competitiva con Londra, Parigi, Berlino.
Però non mi ha ancora risposto del tutto. Da chi teme un attacco al Patto?
Dall’idea che, data la difficoltà di incidere con la spending review in molti comparti della PA dove non è così chiara la linea della spesa, si scelga ancora una volta la sanità dove è più facile tagliare con risultati di risparmio certi e immediati.
Solo un timore o sta già accadendo?
In questo caso, più che in qualsiasi altro, vale la l’idea che “prevenire è meglio che curare”. E quindi giù le mani dal Patto. La spending sanitaria la faremo noi, con le Regioni.
E loro sono d’accordo?
Ho chiarito subito che questo Patto nasce dalla presa in carico delle Regioni di una realtà molto netta per la sanità: siamo in bilico dal punto di vista della sostenibilità finanziaria di un sistema che rischia di non reggere più nel prossimo futuro. Quindi da un lato il sistema va ammodernato per renderlo competitivo e più efficiente ma dall’altro bisogna fare anche scelte forti. E la domanda che ho posto ai territori è stata: siete in grado e ve la sentite di fare voi queste scelte forti o preferite che le faccia qualcun altro? Hanno risposto di essere in grado di farlo. E adesso vedremo. Dalle parole stiamo passando ai fatti, mettendo tutto nero su bianco sul Patto.
Ma quali sono queste azioni “forti”?
Quelle in grado di abbattere definitivamente le sacche di sprechi e inefficienze ancora presenti nel sistema. E il mio mettere le mani avanti con il Mef, soprattutto, sta proprio qui. Voglio che sia chiaro il fatto che riuscire a tagliare ancora su sprechi e inefficienze in sanità non si traduce automaticamente in un taglio al budget. Perché la sanità ha bisogno di investimenti per cambiare. Il passaggio dall’ospedale al territorio non è gratis. Mettere a norma standard qualitativi e strutturali di quella metà dell’Italia sanitaria che non vede investimenti, chi dal 2006, chi dal 2009, non è gratis. L’informatizzazione del sistema, indispensabile per una governance moderna ed efficace, non è a costo zero. O riusciremo a fare questo e cioè tagliare per reinvestire oppure nessuno fermerà Cottarelli e i suoi tagli lineari.
Tutto affidato alle Regioni, dunque?
Non proprio. Non ne ho ancora parlato alle Regioni ma io immagino un sistema di commissariamento per cui, ad esempio, come le Regioni incidono automaticamente sulla leva dell’Irpef per finanziare i sistemi in crisi, così, mano mano che si raggiunge l’equilibrio finanziario si riducono automaticamente le tasse per legge. E stiamo parlando di 2 miliardi di euro. Un’operazione in linea con gli obiettivi primari della spending review di Cottarelli, che sono quelli della riduzione del carico fiscale a cittadini e imprese.
Nuovi Lea. Ci saranno tagli alle prestazioni attuali?
Ci stiamo lavorando per aggiornarli e rispondere meglio ai bisogni della popolazione. Ci saranno new entry e qualche rimodulazione. Ma abbiamo già raggiunto un accordo importante sulle risorse per i nuovi Lea. Si tratta di 800 milioni di euro che, d’accordo con le Regioni, utilizzeremo per disegnare il nuovo paniere delle prestazioni del Ssn, recuperandoli da interventi specifici sull’appropriatezza nei ricoveri ospedalieri. E questa è una cosa rivoluzionaria, anch’essa in linea con la logica della spending interna, perché fino ad oggi le Regioni hanno sempre chiesto un extra budget per i Lea. E lo stesso avverrà per il nomenclatore tariffario per il quale stanziamo 350 milioni per aggiornare l’elenco dei dispositivi, fermo da 25 anni. Risorse che deriveranno anch’esse dalla spending interna.
Ticket. La palla passa alle Regioni. Ma qual è la sua idea?
Le Regioni stanno lavorando partendo dal presupposto di esentare nuove fasce di popolazione oggi in difficoltà come i disoccupati e i cassintegrati e contemporaneamente rivedere le attuali fasce di esenzione dove oggettivamente c’è molto da rivedere per evitare palesi abusi. E questa è anche la mia linea.
Ma come pensa di riuscirci visto che sono anni che si parla di un ticket più equo ma senza costrutto?
A differenza del passato abbiamo molti più dati, dall’anagrafe nazionale degli assistiti, alla tessera sanitaria e alla ricetta elettronica, da cui possiamo avere una vera e propria tabella del cittadino paziente/utente e dei suoi consumi reali. Tutti dati sui quali possiamo lavorare per rivedere il sistema di esenzione con successo.
Cure primarie e H24.Riuscirà il Patto per la salute dove hanno fallito la riforma Bindi del ’99 e il decreto Balduzzi del 2012?
Intanto dobbiamo riconoscere che la riforma del territorio è già in atto in molte parti d’Italia. Non siamo all’anno zero. E poi c’è ormai la consapevolezza che la riconversione dei piccoli ospedali e la creazione nel territorio degli indispensabili filtri al ricorso all’ospedale sia un processo ineludibile. E poi, come ho già detto, c’è la presa d’atto che la riforma delle cure primarie non si può fare a costo zero e infatti essa rientra tra quei settori dove investire con le risorse derivanti dalla spending sanitaria interna. Quindi, consapevolezza dell’irreversibilità del cambiamento ma anche della necessità di metterci risorse e impegni concreti. Tutto questo rende la sanità territoriale un obiettivo reale e raggiungibile in tutta Italia, non più nelle solite situazioni avanzate.
Ma pensa che la nuova sanità territoriale si possa fare con medici, pediatri e specialisti convenzionati?
Il problema non è essere dipendenti o professionisti. Il tema è cosa fanno questi operatori per il Ssn. E anche la medicina convenzionata è ormai in linea con il cambiamento e con la necessità di stare in rete. E lo stesso deve avvenire con le farmacie dei servizi che devono decollare e che saranno inserite nel Patto. In sostanza noi abbiamo due formidabili reti territoriali già operative, quelle dei medici di medicina generale e dei pediatri e quella delle 20 mila farmacie sparse su tutto il territorio. La riforma deve mettere a sistema queste reti già esistenti. Nessuna rivoluzione, abbiamo già tutti i presupposti perché la nuova medicina territoriale decolli definitivamente.
Personale SSN. Sembra un po’ il grande assente. Contratti bloccati, turn over a singhiozzo. Ma come si pensa di far andare avanti la sanità con gli operatori demotivati e arrabbiati?
Intanto abbiamo stabilizzato 35 mila precari grazie al decreto fatto insieme al ministro D’Alia. Per quanto riguarda il blocco del turn over dobbiamo partire dal fatto che esso si lega alla mobilità che dobbiamo intendere sia regionale che nazionale. E quindi torna la questione degli standard: di quanti medici e infermieri abbiamo effettivamente bisogno? Dobbiamo fare gli standard, per adeguare la nostra dotazione di personale al cambiamento della medicina e dei nuovi bisogni di assistenza. E il contratto stesso rientra in una logica di pianificazione di tutto il comparto, ma in questo momento non sono in grado di fare una valutazione precisa sul “quando”, questa decisione spetta più al Mef che a noi. E’ certo che dobbiamo affrontarlo. Fino ad oggi gli operatori hanno capito le difficoltà economiche che hanno impedito la naturale rivalutazione degli accordi, ma adesso dobbiamo offrire loro un disegno chiaro del futuro. Non si può certo continuare così.
I ginecologi hanno annunciato la decisione di un possibile nuovo sciopero nazionale delle sale parto a distanza di un anno da quello del 12 febbraio 2013. Il motivo è la mancata legge sulla responsabilità professionale e la mancata attuazione del Piano sui punti nascita. Cosa sente di dirgli?
Sulla responsabilità professionale abbiamo costituito un tavolo al ministero della Salute per rivedere tutta la materia. Le proposte fin qui fatte non vanno bene. Dobbiamo conciliare l’esigenza del cittadino ad essere garantito sul risarcimento di un eventuale danno subito e quella del medico di poter operare con serenità riconoscendo una specificità giuridica all’atto medico. Ma rispetteremo i tempi e le nuove norme saranno pronte molto presto. Un’operazione che, a regime, stroncherà anche la medicina difensiva che oggi ci costa cifre tra gli 11 e i 13 miliardi l’anno. Per il Piano nazionale punti nascita la responsabilità è delle Regioni ma è certo che il ministero deve esercitare appieno la sua funzione di controllo e intervento laddove la situazione stagna.
Riforma titolo V. Il segretario del Pd Renzi parlando della riforma del Titolo V della Costituzione, ha detto che prima di tutto si elimineranno le competenze “concorrenti”. Tra queste c’è la sanità. Pensa che la riforma annunciata, e che dovrebbe far parte del pacchetto di riforme concordato con il Pdl, toccherà anche la materia sanitaria?
Renzi parla di quello di cui da anni parliamo tutti. Negli anni che ho passato in Commissione Affari Costituzionali e nella bicamerale per il federalismo non si è fatto altro che lavorare per aggiustare il titolo V. Ma dobbiamo essere realisti. A prescindere dal fatto che mi piaccia o meno il federalismo sanitario, la realizzazione del sistema sanitario regionale è costata 100 miliardi di euro, smontarla ne costerebbe altrettanti. Detto questo non esiste norma che dopo 13 anni non possa essere cambiata. Ci sono degli elementi del federalismo sanitario che non hanno funzionato e temi che devono essere ricondotti all’asset nazionale. E del resto se non lo si fa per legge lo si fa de facto. Cos’altro è il commissariamento sanitario di metà d’Italia?
Quali sono questi asset nazionali?
Poteri di controllo e intervento su governance, Lea e standard, compresi quelli per la dotazione di personale. Dobbiamo sapere di quanto personale abbiamo effettivamente bisogno, a tutti i liveli, compresi quelli amministrativi. Ma poi anche sulla ricerca scientifica e la spesa farmaceutica e all’accesso ai farmaci con la necessità di rivedere la funzionalità di Aifa che deve essere capace di dare risposte in tempo reale. E poi il tema della prevenzione: non possiamo pensare che a Milano se ho un tumore al seno vivo e a Reggio Calabria non mi fanno la diagnosi per tempo. Ma anche il tema delle grandi epidemie nell’agro alimentare che oggi affrontiamo fortunatamente in modo vincente ma che corrono su binari esclusivamente amministrativi burocratici, impensabili visto il livello dei virus. Il ministero della Salute deve diventare un dicastero di operatività non può essere un ministero di burocrazia.
Vale a dire?
Prima di tutto dobbiamo cambiare marcia. Questo ministero era stato ucciso, è rinato, ma ora deve essere rafforzato. Soprattutto nella sua attività di controllo sulla governance e sul rispetto dei livelli di assistenza. Se un manager di una Asl non funziona ma resta lì, noi dobbiamo avere la potestà di intervento con meccanismi di sanzioni più forti e questa logica deve entrare nel Patto. Insieme a nuove regole per l’arruolamento del management superando le norme attuali. Se oggi vuoi portare un manager “forte” in una struttura sanitaria in crisi non è così facile farlo.
E sul fronte delle decisioni in materia di spesa sanitaria? Oggi queste spettano al Mef, le rivorrebbe lei?
Fermo restando che la materia dovrebbe essere del ministero della Salute, chiediamoci perché con il Decreto legislativo del 2009 che ha reistituito il ministero essa sia stata trasferita al Mef. Il motivo è semplice: il ministero della Salute non era stato in grado di gestirla. E’ un fatto con cui dobbiamo fare i conti. Oggi le cose sono cambiate e penso che si possa lavorare in modo diverso con il Mef, come la logica del Patto sta dimostrando.
Cesare Fassari – Quotidiano sanità – 5 febbraio 2014