Le mie riserve sul riordino degli ordini professionali (art. 4 della legge Lorenzin) le ho già spiegate in tre occasioni:
– la questione medica (e book),
– su questo giornale a più riprese (QS 24 marzo, 4 agosto, 26 agosto 2014),
– nel corso dell’audizione alla Commissione sanità della Camera l’11 gennaio 2017.
Ma qual è la sostanza?
Se è vera la mia tesi che la manifesta insufficienza degli ordini (problema dell’inadeguatezza). determinata da tanti fattori, è parte integrante della “questione medica” (concausa) e se questo art. 4 è una “occasione persa”, allora:
– questo art. 4, non solo non aiuta a risolvere la “questione medica”, ma, per omessa riforma, contribuisce, nel suo complesso, financo ad aggravarla,
– non un atto “ordinamentale” sarebbe servito ma qualcosa di più forte di più coraggioso di più innovativo e anche di più adeguato.
La stessa cosa vale se ragioniamo di “questione infermieristica”.
Ma allora perché è stato fatto? Continuo a ritenere che per capire le norme non si può prescindere da chi le scrive. Le norme non si possono solo descrivere come fanno i giuristi come se le norme fossero “nomennescio” (N.N), ma vanno interpretate e per interpretarle è necessario comprendere l’intenzionalità del legislatore cioè il riferirsi dei suoi atti normativi alla propria volontà (correlato soggettivo).
Le volontà
In primo luogo i coautori e coloro che hanno votato l’art. 4 sono un medico e una infermiera, entrambi parlamentari, ex presidenti di Fnomceo e di Ipasvi, che fanno parte di un schieramento politico, il PD, per il quale, almeno a giudicare dal proprio programma strategico (prendersi cura della persona), non esiste nessuna “questione medica” o “questione infermieristica”, nessun problema di medicina amministrata, di de-finanziamento, nessuna crisi di nessun tipo, quindi nessuna necessità di riformare niente.
Per i nostri due parlamentari la negazione della realtà, non è semplicemente un problema di occultamento dei fatti ma è una scelta politica che si spiega probabilmente per:
– non essere costretti a mettere sul banco degli imputati in primo luogo tutte quelle politiche che in questi anni, direttamente e indirettamente, hanno agito contro le professioni e che loro, da parlamentari ,hanno votato regolarmente,
– non ammettere di non avere idee a riguardo, appiattiti, entrambi, su una visione amministrativa della realtà dove non esiste nessuna speranza di cambiamento e dove l’unica strada per chi lavora in sanità è adattarsi alle politiche che il governo impone,
– non riconoscere le proprie responsabilità come professioni per non aver fatto nulla di utile quando avrebbero potuto e dovuto fare e per aver fatto male quello che hanno fatto.
I coautori dell’art. 4 sono la stessa infermiera e lo stesso medico che hanno:
– fatto i codici deontologici a mio avviso i più regressivi della storia delle professioni causando entrambi, nelle proprie professioni, spaccature senza precedenti,
– ridotto la Fnomceo e l’Ipasvi a succursali del governo,
– promosso il comma 566 cioè la più grande idiozia politica che si poteva concepire in sanità,
– promesso mare e monti durante la discussione sulla legge di Bilancio sulla copertura finanziaria degli oneri contrattuali senza concludere praticamente nulla.
Costoro sono coloro che, in ogni dettaglio, rappresentano il soggetto principale di due miei libri: “Il pensiero debole della sanità” (2008) e “Il riformista che non c’è” (2013).
I 4 grandi problemi
Ma quali sono i grandi problemi degli ordini e dei collegi per risolvere i quali, avremmo dovuto fare quella riforma che l’art. 4 non è?
I più importanti sono 4:
– oggi le professioni, per ragioni indipendenti dalla loro volontà, nella sanità de-finanziata, spesso non sono in condizione di fare il loro dovere professionale, per cui il malato non è più deontologicamente garantito,
– a causa soprattutto dei condizionamenti economici ai quali sono sottoposte le prassi professionali sta venendo meno quel rapporto di reciproca dipendenzatra diritti e doveri cioè quella condizione grazie alla quale i diritti dei cittadini sono davvero garantiti solo se le professioni fanno il loro dovere,
– la grande difficoltà degli ordini e dei collegi di far fronte per ragioni di vetustà a inediti problemi deontologici,
– ordini e collegi sono diventati istituzioni sempre più auto-riferite agli interessi dei loro gruppi dirigenti, quindi sempre più lontane dai loro iscritti, con una debolissima credibilità sociale e soprattutto sempre più estensioni sindacali.
Cattiva coscienza
Nel nuovo art. 1 del decreto legislativo ricostituivo degli Ordini professionali (come riformulato dall’art. 4 della legge Lorenzin al Capo 1) la lettera C è in piena contraddizione con la lettera L:
– con la prima si ribadisce il primato assoluto del codice deontologico quindi dei suoi valori, nei confronti di altri generi di norme,
– con la seconda invece si tenta di subordinare il genere della norma deontologica ad altri generi di norme compresi quelli regionali, contrattuali ecc.
Il senso della lettera L è più o meno il seguente:norme deontologiche sì ma “tenendo conto” di altre norme.
Se così fosse l’autonomia della deontologia sarebbe finita e le professioni e il cittadino non avrebbero nessuna protezione nei confronti delle politiche bilanciofreniche soprattutto delle regioni.
“Tenendo conto”, è una espressione decisamente ambigua che non ha nessuna valore performativo perché non è né un imperativo (devi..) né un condizionale ( solo se..) per cui ha semplicemente un significato intimidatorio. Il suo vero significato tuttavia ha a che fare con la cattiva coscienza del legislatore che nella deontologia vede un ostacolo all’attuazione delle proprie politiche restrittive soprattutto quelle che usano, il de-mansionamento, la flessibilità del lavoro, il blocco del turn over, la medicina amministrata per contenere il più possibile i costi del sistema.
“Tenendo conto” vuol dire una deontologia secondo i limiti che le norme di altro tipo, in quanto tali rappresentano, esattamente come se dicessimo “tenendo conto delle condizioni del malato” vale a dire “dei limiti che il malato pone alla cura”.
Sindacato e ordine
La lettera C (sempre del nuovo art .1), oltre a definire l’autonomia della deontologia, precisa che gli ordini “non svolgono ruoli di rappresentanza sindacale”.
Nell’audizione alla Camera (menzionata sopra) credo di essere stato l’unico a porre la questione dei rapporti promiscui tra sindacato e ordini per cui mi fa piacere che la norma, anche se a modo suo, accenni al problema.
Ma che vuol dire che gli ordini non svolgono ruoli di rappresentanza sindacale?
Che nessun membro può assommare cariche ordinistiche e cariche sindacali? Se così fosse la stragrande maggioranza dei presidenti di ordine si dovrebbe dimettere.
Che è vietato al sindacato di condizionare coloro che hanno cariche ordinistiche o di deciderne il destino favorendone tanto l’eleggibilità che l’eliminazione? Se così fosse anche in questo caso tutti i sindacati importanti sarebbero sotto accusa.
Che è vietato fare liste sindacali per eleggere i quadri dirigenti degli ordini? In questo caso pochissimi secondo la consuetudine andrebbe a votare.
Ma a parte questo dove passa la demarcazione tra ordine e sindacato? Tra deontologia e lavoro? Tra demansionamento e difesa della professione? Il comma 566 è stato un problema ordinistico o sindacale o di entrambi?
L’appropriatezza è una questione di metodo scientifico, deontologica o di organizzazione del lavoro? Se la de-capitalizzazione del lavoro è anche de-professionalizzazione essa può essere solo una questione contrattuale? La medicina amministrata è solo un problema deontologico?
Complementarietà e reciprocità
E’ ovvio che ordini e sindacati sono cose diverse, che il pan-sindacalismo va criticato. Un ordine resta un ente pubblico rispetto al quale un sindacato deve essere contro-parte o interlocutore ma non co-gestore, ma su molte questioni è giusto demarcare e su altre no, per cui dal legislatore (che a sua volta ricordo deve la sua carriera al pan-sindacalismo), ci saremmo aspettati qualcosa di più di una “frasetta” “buttata là” tanto per ammiccare al problema.
Personalmente non penso ad erigere muri e steccati, ma a soluzioni di buon senso, possibili, praticabili, di buona convivenza e di buona collaborazione tra sindacato e ordini e società scientifiche. Il legislatore per esempio avrebbe potuto rivolgersi, proprio alla deontologia, dando indicazioni agli ordini di disciplinare autonomamente le loro relazioni interne con il sindacato e con il resto, stabilendo magari alcuni elementari incompatibilità. Ma niente di niente.
Non è la relazione in sé “sindacato/ordine” il problema. I medici e gli infermieri non si possono segare in due quindi ci mancherebbe altro che gli ordini non siano in relazione con il sindacato. Quello che bisognerebbe fare è definire deontologicamente il modo e la forma di questa relazione non negarla. Deve essere una relazione vicariante? Complementare? Sussidiaria? O a autonomie reciproche e correlate? Nulla di più.
Ausiliario e sussidiario
Fin dall’inizio della discussione sull’art. 4 mi sono dichiarato contrario alla trasformazione degli ordini da enti ausiliari, come di norma considerati sino ad oggi, in enti sussidiari.
La differenza tra funzione ausiliaria e funzione sussidiaria non è marginale:
– in un caso gli ordini svolgono una funzione di iniziativa e di controllo,
– nell’altro invece gli ordini possono svolgere compiti amministrativi in luogo e per conto dello Stato.
Quindi passare da ente ausiliario ad ente sussidiario significa un cambiamento della natura istituzionale degli ordini quindi dei compiti e della mission. Mi limito a chiedere: rispetto ai 4 grandi problemi delle professioni e dei cittadini, ci conviene? Se la sussidiarietà convenisse alla causa delle professioni e all’interesse dei cittadini, non ci sarebbe nessuna preclusione di sorta.
La mia paura è che ridefinire la natura giuridica degli ordini per fare un po’ di business sulla formazione, non risolve nessuno dei problemi gravi delle professioni ma soddisfa esclusivamente la smania parastatale di certi personaggi. Si può fare formazione senza per questo cambiare la natura giuridica degli ordini. Già ora gli ordini svolgono importanti funzioni formative.
Per la difesa delle professioni e dei cittadini è meglio l’ente ausiliario o l’ente sussidiario?
Riformare l’idea di corporazione
Il diritto amministrativo considera gli ordini come “corporazioni” cioè come soggetti giuridici nei quali non prevale l’elemento patrimoniale ma quello personale quindi professionale.
La critica che avanzo all’art. 4 è politica e riguarda proprio l’idea di corporazione: aver negato i problemi reali delle professioni e dei cittadini, significa di fatto aver negato la necessità di riformare la vecchia idea di “corporazione” con il fine di ripensarla non già di negarla.
Con un’idea di “corporazione” che, ricordo, per i medici è nata nel 1910 e che in nessun modo il riordino dell’art. 4 mette in discussione se non peggiorandola con la sussidiarietà, non si va da nessuna parte.
Alto tradimento
La critica invece che rivolgo al medico e all’infermiera, quindi ai coautori principali dell’art. 4, in realtà è una accusa, ovviamente retorica, di alto tradimento, nel senso che da loro, mi sarei aspettato più coerenza, più lealtà, più coraggio riformatore, più amore per le proprie professioni, alle quali, ricordo, essi devono in gran parte le loro carriere politiche
Il tradimento vero per entrambi tuttavia riguarda la verità:
– aver omesso in sede legislativa di dire la verità sulla reale condizione degli ordini, delle professioni e dei cittadini , quindi sui veri problemi della deontologia,
– aver deviato la ricerca di verità soddisfacenti cioè di soluzioni per indebolire il valore della deontologia e della sua autonomia.
Per questo tradimento, che pure nella sua retorica, è primariamente deontologico, costoro:
– come medici e infermieri, meriterebbero, di essere “radiati” dai loro rispettivi ordini,
– come parlamentari quello che per la retorica è un tradimento diventa il diritto/dovere di rappresentare comunque la linea del proprio schieramento politico, nei confronti del quale, accettando le regole della democrazia, al massimo si può solo dissentire.
Conclusioni
L’art. 4 è davvero, sia per i medici che per gli infermieri, qualcosa di imbarazzante e di paradossale:
– attraverso il Parlamento, si sono consumate vendette contro singoli ordini medici: la lettera L è chiaramente la risposta dell’Emilia Romagna attraverso i propri deputati, all’ordine di Bologna strenuo difensore della deontologia professionale e della sua autonomia,
– attraverso la parificazione nominalistica tra ordini e collegi (sulla necessità di istituire gli ordini delle professioni sanitarie mi trovo completamente in sintonia con quanto scritto da Daniela Volpato, QS 3 gennaio 2018) si dà l’idea ingannevole di una grande conquista pur sapendo che essa per quanto ovvia, in nessun modo è una soluzione che da sola basta a cambiare la grama condizione professionale degli infermieri. Non sarà la parificazione che riuscirà a colmare il vuoto progettuale che da quasi 20 anni tiene la legge 42 nel congelatore.
L’art. 4 quindi è una “occasione persa” solo per chi crede che la deontologia sia in pericolo assediata da politiche definite in vario modo “per la sostenibilità”, ma per chi ritiene che la deontologia sia un ostacolo alle politiche di sostenibilità, l’art. 4 basta e avanza.
Chiudo con un paio di domande:
– in cosa consiste realmente “l’occasione persa”? Aver sprecato le possibilità di rinnovamento che si hanno quando si fa una nuova legge, o aver sprecato la presenza delle professioni in Parlamento?
– nella sanità pubblica morente, a che serve mandare medici e infermieri in Parlamento se, alla fine della fiera, è come averli contro, nel senso che nelle leggi che fanno o che votano, verità e democrazia, non coincidono mai?
Ivan Cavicchi – Quotidiano sanità – 7 gennaio 2018