Livio Garattini *, Michela Bozzetto *, Alessandro Nobili *, IlSole 24 Ore sanità. La doppia attività (pubblica e privata) in campo clinico è un fenomeno antico, che si perpetua più o meno in tutte le parti del mondo, non solo nelle nazioni più povere, dove le autorità sanitarie non hanno fondi a sufficienza per coprire le proprie spese, ma anche in quelle più ricche e sviluppate. Limitandoci all’Europa, la doppia attività è tuttora autorizzata tanto nei Paesi scandinavi quanto in quelli latini, seppure con diverse regole e modalità.
In generale, l’attività privata è molto legata sia all’esperienza acquisita dai medici, e quindi alla loro età, tendendo a crescere con l’andare degli anni, sia al tipo di specialità, e quindi al legame più o meno stretto e duraturo coi pazienti, essendo molto più diffusa fra determinati specialisti (ad esempio cardiologi, dermatologi, ginecologi, oculisti) e pressoché inesistente in altri campi (tipicamente laboratoristi e intensivisti). In Italia l’attività secondaria è stata erogata non solo nelle strutture private tradizionali (ambulatori, case di cura ecc.), ma in tempi più recenti anche in quelle pubbliche, ad esempio nelle stanze a pagamento dei nostri ospedali pubblici (c.d. attività intra moenia), permettendo al paziente di scegliere il proprio medico oltre che di usufruire di un migliore “servizio alberghiero”.
La doppia attività è un tema scarsamente dibattuto nella letteratura medica, ma anche più in generale nei mass media. Una spiegazione plausibile di questa scarsa attenzione è che la doppia attività, al di là di favorire i pazienti più facoltosi, non fa notizia presso il grande pubblico, a meno che non sfoci in qualche fenomeno eclatante di corruzione individuale. In ultima analisi, la doppia attività viene considerata come un fenomeno storico e ineluttabile, motivo per cui difficilmente ne viene richiesta la messa al bando.
La giustificazione (paradossale) più frequentemente citata per consentire la doppia attività è che la sua messa al bando favorirebbe inevitabilmente il settore privato nell’attrarre i medici più qualificati del settore pubblico offrendo loro stipendi più elevati. In effetti, al di là di tutti i tentativi più o meno sofisticati, alla fine la giustificazione viene sempre ricondotta a tutte le latitudini (paesi scandinavi inclusi) agli aspetti monetari, sia per i medici che per i pazienti. I primi (ovviamente) per aumentare i proprio introiti, i secondi per evitare le liste d’attesa e fissare appuntamenti in tempi stretti con un medico di propria scelta se hanno un reddito tale da poterselo permettere, a prescindere dalla reale urgenza del bisogno sanitario specifico. Ovviamente il circolo vizioso diventa finanziariamente più sostanzioso per i medici che imparano a sviluppare le proprie capacità di selezionare e indirizzare verso la propria attività privata i pazienti più abbienti.
Una forma più sofisticata di doppia attività è quella generata dalla già citata intra moenia, in cui l’attività privata è direttamente incoraggiata addirittura dalle autorità sanitarie pubbliche. Una situazione talmente paradossale sotto il profilo concettuale e deontologico da essere stata definita in letteratura come un fenomeno di “corruzione istituzionale”. Solleva infatti un conflitto di interessi del tutto evidente all’interno delle strutture pubbliche stesse, che utilizzano i propri dipendenti amministrativi per organizzare un’attività parallela conflittuale a quella istituzionale e incentivano finanziariamente gli operatori sanitari che si rendono disponibili a far saltare ai propri pazienti le liste di attesa pubbliche.
Come spesso accade, anche in soccorso della doppia attività viene citata qualche teoria economica, nella fattispecie quella derivata dall’economia del lavoro secondo cui il personale dipendente esercita un secondo lavoro nel proprio tempo libero solamente qualora il proprio stipendio non sia soddisfacente. Il sacrificio del tempo libero perduto dal lavoratore viene quindi giustificato dal guadagno aggiuntivo. Peraltro, in sanità questa teoria stride palesemente con la motivazione primaria generalmente indicata dai medici per il proprio lavoro in tutte le indagini di settore, cioè la salute dei loro pazienti (e non il loro reddito).
D’altro canto, le indagini focalizzate sul reddito confermano che i medici dipendenti considerano quasi sempre insufficienti gli stipendi percepiti nel settore pubblico, motivo per cui si dichiarano più che disponibili a rinunciare alla propria attività privata in cambio di uno stipendio più elevato. In tal senso, va anche ricordato che il percorso formativo dei medici è probabilmente il più lungo in assoluto di tutte le professioni esistenti, a partire dalla laurea di sei anni (in quasi tutta Europa), per poi proseguire con un compenso limitato negli anni di specialità. Pertanto, anche se il reddito medio dei medici risulta ovunque di gran lunga superiore a quello pro capite in tutti i Paesi (più che doppio in Italia e addirittura quasi quadruplo in Germania), è comunque doveroso ricordare che i medici incominciano a ricevere uno stipendio in ritardo rispetto alle altre professioni. Peraltro, passando dai valori medi totali a quelli per specialità medica, le differenze reddituali possono risultare sorprendenti e i picchi massimi addirittura imbarazzanti nelle (rare) indagini disponibili in materia. Ad esempio, qualche anno fa in Inghilterra il reddito medio degli intensivisti, categoria balzata di recente agli onori della cronaca per il Covid-19, era risultato a qualsiasi età di gran lunga inferiore a quello dei colleghi oculisti, cardiologi e ortopedici esclusivamente a causa dell’attività privata di questi ultimi, pressoché inesistente nella loro specialità.
Per completare le riflessioni economiche sulla doppia attività, val la pena citare una teoria quasi diametralmente opposta a quella precedente dell’economia del lavoro, derivata in questo caso dall’organizzazione del lavoro. La possibilità per un lavoratore dipendente di operare contemporaneamente per un’azienda concorrente viene escluso a priori in qualsiasi settore, ma ancora più paradossale sarebbe ipotizzare che incontri gli stessi clienti in orario extra lavorativo per fare affari con loro privatamente. Oltretutto, è doveroso ricordare che tutti i professionisti sanitari (infermieri inclusi) svolgono un’attività considerata usurante e a rischio crescente di burnout, specialmente in ospedale, dove sono loro richiesti anche turni notturni e festivi. Quindi, a maggior ragione, i professionisti sanitari dovrebbero trarre notevole beneficio da lunghe pause di riposo, piuttosto che impegnarsi in attività parimenti stressanti al di fuori dell’orario di lavoro.
Volendo provare a tirare le fila di tutti i ragionamenti fin qui fatti, fatichiamo veramente a trovare delle giustificazioni accettabili a qualsiasi forma di doppia attività in sanità, che a nostro avviso andrebbe bandita in qualsiasi sistema sanitario evoluto (e quindi in tutta la UE) anche a salvaguardia del principio di equità di accesso alle cure. D’altro canto, ciò non significa nemmeno pretendere sacrifici illimitati da parte degli operatori sanitari senza il riconoscimento di uno stipendio adeguato alla società a cui appartengono. L’aspetto reddituale è sicuramente un problema cruciale da affrontare e risolvere in tutte le nazioni, a cui si potrebbe cercare di dare in prospettiva una soluzione europea, tenendo conto di alcuni semplici parametri finanziari (come il rapporto col reddito pro capite nazionale), ma anche di possibili normative professionali generali, ad esempio la possibilità di pensionamento precoce per le professioni più a rischio di burnout come quelle di urgenza.
Concludendo, siamo convinti che la strategia giusta da perseguire in futuro in sanità sia quella di concentrarsi sulla ricerca di soluzioni ragionevoli e fattibili per gestire e gratificare nel miglior modo possibile i professionisti sanitari che operano a tempo pieno esclusivamente nel servizio pubblico. Non ci sembra un’affermazione da libro dei sogni e quindi confidiamo ci credano anche i futuri legislatori europei, a cominciare da quelli italiani e partendo dall’abrogazione dell’attività intra-moenia, messa in crisi anche sotto il profilo meramente finanziario dalla pandemia recente.
* Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri Irccs