La permanenza dell’Italia nell’Unione monetaria, forse la sopravvivenza dell’euro, dipendono dalla stabilizzazione del nostro debito pubblico. Senza misure straordinarie, dovremo mantenere un avanzo primario del 3-4% del Prodotto interno lordo per almeno una decina di anni, anche se il criterio del cosiddetto output gap potrebbe consentirci uno sforzo più contenuto.
Possiamo farlo senza compromettere la crescita economica? Nella gran parte dei casi, i debiti sovrani sono stati abbattuti solo con varie forme di ristrutturazione — inflazione, default esplicito, imposte patrimoniali e controlli sui movimenti di capitale — ma alcuni Paesi ci sono riusciti grazie al consolidamento fiscale e senza cadere in recessione, come, negli anni 90, Belgio, Canada, Danimarca, Svezia e, più recentemente, gli Stati baltici. Gli scenari possibili dipendono da molte incognite: il sentimento degli investitori, le scelte delle autorità politiche europee, la credibilità dei governi, l’economia globale. Riformuliamo allora la questione in modo diverso: esiste, per l’Italia, una strada diversa dal consolidamento fiscale, che non sia l’uscita unilaterale dall’Unione monetaria? Risponderemo a questa domanda prendendo in esame due alternative: la proposta di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, cioè lo sforamento del vincolo del 3% di disavanzo in cambio di un programma di riduzione della spesa pubblica e di riforme strutturali (Corriere della Sera, 17 maggio 2013 e 5 gennaio 2014), e le misure «straordinarie» per l’abbattimento del debito.
La proposta Alesina-Giavazzi non va confusa con l’ingenua richiesta di «battere i pugni sul tavolo». Sarebbe da irresponsabili dissipare la nostra credibilità nei confronti della Ue e dei mercati minacciando di far saltare il banco. I due economisti suggeriscono, piuttosto, un accordo preventivo con l’Europa. Il problema, però, è che la Ue non ha a disposizione strumenti credibili per sanzionare l’Italia se il nostro Parlamento o i governi futuri rinnegassero le promesse, e anche se tali strumenti fossero previsti o annunciati sarebbero comunque un’arma spuntata. La proposta Alesina-Giavazzi, cioè, non risolve il difetto principale dell’architettura istituzionale della Ue: l’assenza di un forte governo centrale con un credibile potere sanzionatorio e una politica economica comune.
Le misure straordinarie possono essere di tre tipi: dismissioni di patrimonio pubblico, patrimoniale straordinaria o misure di «repressione finanziaria» (prestito forzoso da parte di banche, fondi pensione e altri intermediari, limiti ai movimenti di capitale). Le dismissioni sono una politica necessaria e auspicabile, ma non risolutiva. Il governo ha cominciato a percorrere questa strada in modo prudente (8-10 miliardi), ma è evidente che un piano più sostanzioso richiede tempo, perché occorre tutelare la concorrenza, indurre gli enti locali a vendere le società partecipate e cambiare la destinazione d’uso degli immobili.
Una patrimoniale straordinaria è auspicata da molti in ragione della consistenza elevata della ricchezza finanziaria degli italiani. Escludendo alcune voci, come circolante, titoli di Stato e depositi postali, con alcune franchigie per i patrimoni piccoli e medi, si può arrivare a una base di 6 mila miliardi. Un’imposta una tantum del 5% produrrebbe, in teoria, un gettito di 300 miliardi che, utilizzato per abbattere il debito, consentirebbe un risparmio di spesa per interessi di circa 20 miliardi all’anno. Ma gli effetti sarebbero incerti e, probabilmente, iniqui. Si consideri che tale imposta colpirebbe i risparmi previdenziali e si aggiungerebbe a quelle ordinarie sul patrimonio. Oltre al problema della liquidità, essa sarebbe molto impopolare e potrebbe ledere ulteriormente il rapporto di fiducia tra i cittadini e lo Stato. Poiché il risparmio annuo di interessi equivarrebbe a poco più di un terzo dell’avanzo primario richiesto da un programma ordinario di consolidamento fiscale, ci sembra che i costi superino i benefici…
Cosa dire, infine, delle misure di repressione finanziaria/prestito forzoso? L’effetto immediato sarebbe la svalutazione dei nostri titoli pubblici. Data l’enorme esposizione del sistema creditizio nei confronti del debito italiano, sarebbe poi necessario ricapitalizzare le banche, mettendo in pericolo la stabilità del sistema finanziario e gli stessi conti pubblici. Contrariamente a ciò che si sente dire spesso sui media, le istituzioni europee non sono all’origine dei nostri mali. È, piuttosto, l’appartenenza all’Eurozona che ci consente di risparmiare sul costo del debito pubblico, un vantaggio che nello scorso decennio non abbiamo saputo utilizzare. Le gestioni finanziarie irresponsabili perseguite per molti anni alla fine inevitabilmente si pagano. A noi non resta che agire sui saldi primari. Non essendo possibile aumentare ancora la pressione fiscale, la scelta è obbligata: la riqualificazione e la riduzione della spesa. Come farlo è quindi la questione cruciale di qualsiasi governo. Ed è meglio che lo facciamo presto prima di essere messi sotto tutela.
Mauro Marè e Pietro Reichlin – Corriere della Sera – 10 febbraio 2014