Repubblica. Cinquantasei a due. Così i ricchi battono i poveri nella corsa ai vaccini. Vuol dire, spiega il programma per lo sviluppo delle Nazioni Unite, che nei Paesi sviluppati 56 persone su 100 hanno ricevuto almeno un’iniezione contro il Covid, e nei Paesi in via di sviluppo solo 2. In questo contesto due giorni fa gli Stati Uniti hanno deciso di somministrare la terza dose a tutti i suoi cittadini.
«È una presa in giro» è sbottata Matshidiso Moeti, direttrice per l’Africa dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). «Ci si fa beffe del principio di equità». Nel continente meno del 2% degli 1,3 miliardi di abitanti ha ricevuto almeno una dose. Lunedì si è scoperto che una parte dei vaccini Johnson&Johnson infialati a Durban, in Sudafrica, è stata venduta all’Europa. Né gli aiuti promessi dall’Ue al G20 della salute a Roma a maggio per realizzare fabbriche di vaccini in Africa si sono concretizzati.
«Non possiamo accettare che i Paesi che hanno usato la maggior parte delle scorte mondiali ne consumino ancora di più, mentre le persone più vulnerabili al mondo restano senza protezione» ha di nuovo detto il direttore dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, che già aveva chiesto ai Paesi ricchi di posporre la vaccinazione dei bambini, meno a rischio per il Covid. Né, ha ribadito Soumya Swaminathan, chief scientist dell’Oms, «ci sono dati che indichino la reale necessità di una terza dose ». Per tutta risposta, il presidente americano Joe Biden ha appena annunciato che lui stesso per primo porgerà il braccio all’ulteriore richiamo, insieme alla moglie.
«Il problema principale dei Paesi in via di sviluppo è sicuramente la mancanza di dosi», spiega Angela Santoni, direttrice scientifica dell’Istituto Pasteur Italia ed ex rappresentante nel board di Gavi, l’Alleanza internazionale per i vaccini. Gavi insieme all’Oms gestisce il programma Covax, che raccoglie fiale e le distribuisce ai Paesi che non potrebbero permettersele. L’obiettivo prefissato dei 2 miliardi di dosi entro la fine del 2021 è ormai irrealistico: finora i vaccini distribuiti in 138 Paesi sono 206 milioni. «Contavamo molto su AstraZeneca» spiega Santoni. «I suoi problemi di produzione sono stati un duro colpo per Covax».
Ma l’approvvigionamento non è l’unica difficoltà. «Abbiamo avuto anche fiale scadute in Sud Sudan o a Kinshasa», racconta Isabella Panunzi, responsabile delle vaccinazioni internazionali per Medici senza frontiere. «In Paesi dove i sistemi sanitari sono fragili, organizzare campagne di vaccinazione di massa è complicato. Si fatica a mantenere le fiale a temperatura di frigo, figuriamoci a rispettare l’ultra freddo dei vaccini a Rna. Spesso non si arriva oltre le grandi città. Le persone non si fidano troppo di prodotti che vengono dall’Occidente e per i quali le aziende produttrici declinano ogni responsabilità. Noi stessi facciamo fatica a trovare assicurazioni che ci coprano. Ma così, come dice l’Oms, stiamo giocando col fuoco».
L’obiettivo di creare industrie per la produzione in loco finora è lontano. Le eccezioni sono Brasile, Sudafrica, limitatamente all’infialamento, e India, che con il suo gigantesco Serum Institute è il maggior produttore di vaccini al mondo, ma ora ha bisogno di immunizzare i suoi quasi 1,4 miliardi di abitanti. La proposta di abolire i brevetti si è impantanata nelle riunioni di giugno della World trade organization. «Ma quello non è l’unico problema», precisa Panunzi. «Spesso gli standard di qualità sono insufficienti. Le temperature sono alte. Manca l’elettricità e ci si affida al gasolio. Produrre vaccini, in particolare quelli contro il Covid, è complesso». E così il virus circola, minacciando con le sue mutazioni anche i Paesi ricchi e vaccinati. «Al momento la situazione è preoccupante in Indonesia», spiega Santoni. «Ma ogni Paese, lasciato senza protezione, è una potenziale fonte di varianti per tutto il resto del mondo».