Quasi un quarto di pensione in meno. Lasciare il posto di lavoro tre anni prima significa rinunciare almeno per vent’anni a 400 euro al mese. E recuperarne, dal ventunesimo in poi, la metà. A quasi 87 anni suonati. Ma con tre anni di riposo aggiuntivi alle spalle. Se poi la scelta è tra avere un assegno subito seppur decurtato anziché essere esodato, disoccupato o esubero, il gioco può valere la candela.
È tutto qui lo scenario base dell’Ape, l’anticipo pensionistico pensato dal governo come risposta all’esigenza di flessibilità in uscita, seppur sperimentale nel triennio 2017-19, poi si vedrà. Un dipendente pubblico o privato, nato tra il 1951 e il 1953, dal prossimo anno potrà chiedere di andare in pensione fino a tre anni prima rispetto al requisito di vecchiaia pari a 66 anni e 7 mesi. Ottenendo così un anticipo sull’assegno futuro, in pratica un prestito dalle banche (ma erogato tramite Inps), garantito da un’assicurazione in caso di morte, che poi restituirà in vent’anni, a un tasso di interesse da fissare, finendo così di pagare a 86 anni e 7 mesi. La pensione anticipata subirà per forza di cose una penalizzazione: non esplicita, da norma ad hoc, ma implicita (e logica) perché nel calcolo verranno a mancare da uno a tre anni di versamenti contributivi.
Nel caso base qui descritto da Progetica, società indipendente di consulenza, si ipotizza un tasso di interesse (il costo pagato alla banca per il prestito) all’1,5%, considerato ragionevole dagli esperti di Palazzo Chigi. Altre elaborazioni, come quelle diffuse ieri dalla Uil – Servizio politiche previdenziali, azzardano addirittura un 3%. In questo caso, per il segretario confederale Domenico Proietti, il pensionato da 2.500 euro netti mensili rischia «un taglio dell’assegno fino al 20%» per l’anticipo di tre anni. Una rata di restituzione cioè pari a un quinto della sua pensione netta e al 15% di quella lorda, tetto massimo fissato dal governo. «Se così fosse, l’anticipo non sarebbe conveniente per il lavoratore », conclude il sindacato.
Ma non sarà per tutti così. Esodati, bassi redditi, vittime di ristrutturazioni aziendali potranno contare su detrazioni fiscali selettive e graduate «in base al reddito», ipotizza Palazzo Chigi, per un costo pubblico entro il miliardo di euro. In grado di coprire in tutto o in parte la quota interessi del prestito e in alcuni casi anche un pezzetto della quota capitale, così da alleggerire la rata. Ma è chiaro sin da ora che la nonna desiderosa di trastullarsi col nipotino (l’esempio fatto da Renzi) – e tutti gli altri pensionati che scelgono di uscire prima non perché costretti – dovranno mettere in conto di pagare l’Ape come fosse un piccolo mutuo, interessi compresi. Soprattutto se benestanti. Il calcolo di Progetica è illuminante. Un lavoratore nato il primo giugno 1953, con reddito netto mensile da 2 mila euro, può contare su una pensione di vecchiaia di circa 1.703 euro (ipotizzando una carriera tranquilla e senza salti, con inizio a 25 anni, retribuzione cresciuta dell’1,5% nel corso del tempo). Se sceglie però l’Ape e anticipa l’uscita di tre anni (il primo gennaio 2017 anziché nel maggio 2020), si assicura un assegno decurtato del 10%, pari a 1.542 euro. Finito il triennio di anticipo della pensione, inizia a restituire il prestito, con rate pari a 240 euro. Il suo assegno scivola così a 1.301 euro per vent’anni. Dopo risale a 1.542. Rispetto ai 1.703 euro di pensione “potenziale”, per due decenni incassa il 24% in meno, ma con tre anni in più di pensione. Se anticipasse solo di due anni, il taglio sarebbe del 15%. Se preferisse uscire giusto un anno prima, rinuncerebbe al 7% di pensione. Troppo? Giusto? Accettabile? Lo decideranno i lavoratori, almeno 30-40 mila interessati, secondo le prime stime. Specie i nati nel 1953, visto che le classi ’51-’52 sono state già aiutate con diversi interventi correttivi della Fornero.
Quali i nodi sul tappeto? La questione dell’assicurazione in caso di morte, su tutti. Il governo ipotizza un periodo di 20 anni per restituire l’Ape. Ma la speranza di vita, calcolata dall’Istat, è ora ferma a 19 anni (media ponderata tra i 17,3 anni degli uomini e i 20,6 delle donne). Questo significa che le assicurazioni dovranno coprire almeno un anno in media. E chi paga il premio? Lo Stato? Altra questione, il tasso applicato dalle banche (del cui intervento non si può fare a meno, dice il governo, se non si vuole spendere 10 miliardi l’anno). Un tasso troppo alto rende l’Ape meno appetibile. O troppo impegnativa la copertura pubblica.
Perplessità della Uil: potrebbe non essere conveniente lasciare se non si è costretti Tra i nodi da sciogliere quello dell’assicurazione in caso di morte: chi pagherà il premio?
Repubblica – 16 giugno 2016