La legge di stabilità appena varata dal governo è un provvedimento complesso e variegato: i suoi effetti distributivi sul reddito degli italiani sono difficili da stimare. A giudicare dal coro di proteste degli ultimi giorni, la parte più controversa riguarda i tagli a deduzioni e detrazioni fiscali e la tosatura delle prestazioni assistenziali.
Quando si toccano i portafogli delle famiglie, le critiche sono inevitabili e spesso hanno carattere strumentale. Più che entrare nel merito di singole misure, conviene concentrarsi sulla direzione generale della manovra. La strada imboccata è quella giusta? Rispondo con una metafora: la strada è giusta, ma il governo ha messo il carro davanti ai buoi. Ha cioè agito senza avere gli strumenti per poter essere davvero efficace ed equo. Nel nostro Paese il complesso fisco-welfare è un labirinto disordinato e incoerente, con scarsa capacità di sostenere le famiglie disagiate e di contrastare la (vera) povertà. Nel loro insieme, le prestazioni di assistenza sociale riducono il tasso di povertà relativa di un misero 896, rispetto al 1396 di Francia e Germania e al 1796 dell’Inghilterra. Nella Ue solo Bulgaria e Lettonia fanno peggio. Circa la metà della spesa va a famiglie che non sono economicamente disagiate (sempre in termini relativi). Data questa situazione, l’obiettivo di razionalizzare e «mirare» in modo più accurato i trattamenti, a cominciare da quelli di invalidità, in ragione dei bisogni reali e della situazione economica di chi li riceve è sacrosanto e questo governo non è certo il primo ad affrontare il problema. Il fatto è che non disponiamo (ancora) dello strumento adatto per selezionare bisogni e redditi delle famiglie. Da almeno quindici anni, è su questo punto che «casca l’asino» delle politiche selettive all’italiana. Mario Monti ed Elsa Fomem lo sanno bene. Da mesi il governo sta lavorando proprio sullo strumento: una versione riveduta e corretta del cosiddetto Indicatore della situazione economica equivalente (Isee), già in uso per l’accesso ad alcune prestazioni a livello locale. Ecco allora la perplessità di fondo. Perché si è usata l’accetta per aggredire agevolazioni e trasferimenti invece di aspettare che il nuovo strumento fosse pronto? E se non si poteva aspettare, perché non si è proceduto più rapidamente con la riforma dell’Isee? Sempre in tema di famiglie, vi è poi un secondo aspetto che delude: la scarsa attenzione nei confronti di chi si trova in povertà «assoluta» (senza beni essenziali per condurre una vita dignitosa), tre milioni e mezzo circa di famiglie. L’unico sostegno nazionale è rappresentato dalla «carta acquisti», che vale 4o euro al mese: un importo che si commenta da solo. La legge di stabilità ipotizza un rifinanziamento della carta per il 2013. Ma nell’ambito di uno stanziamento complessivo di goo milioni di euro volto a finanziare «interventi di settore per le università statali, le politiche sociali, le famiglie, i giovani, la ricostruzione dell’Aquila e le missioni di pace all’estero». Quanto resterà per i poveri? In Francia il «reddito di solidarietà attiva» garantisce a una famiglia nullatenente con due figli un trasferimento di circa mille euro al mese. La prestazione è stata introdotta da Sarkozy nel 2008. Poche settimane fa, Hollande ha imposto un prelievo dello 0,1596 sulle pensioni, che raddoppierà nel 2014 per finanziare politiche a favore dei non autosufficienti. Certo la Francia non ha i nostri vincoli finanziari. Tuttavia l’esperienza d’Oltralpe indica un percorso: costruire un welfare più equo ed efficace si può. Ma bisogna prima volerlo, a destra come a sinistra.
MAURIZIO FERRERA – Corriere della Sera – 18 ottobre 2012