È la sconfitta di Renzi e dell’uno contro tutti. Cade la riforma costituzionale ma viene respinto soprattutto uno stile di leadership. Il premier lascia dopo aver cercato un’investitura popolare che gli mancava e che ieri non ha trovato. Ha vinto l’accozzaglia – come la chiamava in campagna elettorale – ma quel “marchio” non è stato sufficiente a convincere gli italiani a scegliere il Sì.
Il fronte del No era un mondo variegato – è vero – ma c’è chi vince più degli altri: i 5 Stelle, la forza più corposa, più trasversale anche geograficamente. Dopo Roma non si arresta la marcia di Grillo e si proietta già alle prossime elezioni nazionali. Ed è a loro che Renzi lancia la sfida del giorno dopo, quella di trovare una soluzione. Anche se il dilemma è tutto nel Pd.
Renzi ha tentato l’azzardo e come Cameron è stato battuto. Cade la “sua” Costituzione ma viene travolta l’idea di cambiamento che c’era dietro la sfida referendaria. La riforma era il “cuore” del suo Governo, quella che ha giustificato il suo arrivo a Palazzo Chigi, gli italiani – però – non hanno creduto al cambio di passo. All’appello è mancata quella maggioranza silenziosa su cui il premier contava, quella che ha sempre premiato la stabilità e che questa volta è rimasta indifferente alle conseguenze di un No. Anzi le ha cercate, dopo che il leader del Pd aveva messo in palio Palazzo Chigi.
A questo punto le dimissioni di Renzi non mettono al centro solo le sue mosse ma soprattutto quelle del suo partito. A parlare adesso sarà il Pd, partito di maggioranza in Parlamento, da cui dipendono le prossime scelte da portare al capo dello Stato. Il grande punto di domanda è cosa succederà dopo la disfatta renziana, se la maggioranza resterà con lui o se ci sarà un nuovo equilibrio tra le correnti di partito che hanno già alle spalle il tradimento dei 101, il Governo Letta poi scaricato, e ora questa nuova prova.
Il bivio non è semplice, per il Pd si tratta di scegliere ancora una soluzione senza un’investitura popolare e questo comporta notevoli rischi. Il ricordo recente dell’appoggio al Governo Monti e di come se ne sia pagato il prezzo con le elezioni 2013 peserà nella decisione dei prossimi passi. Ma peserà anche il senso di responsabilità di cui necessariamente si dovrà fare carico il partito di maggioranza. Contano i calcoli elettorali ma conta soprattutto quello che accadrà oggi sui mercati, sui titoli bancari. Questioni rimaste in sospeso proprio in attesa dell’esito referendario che ormai è scritto.
Il dilemma per il Pd sarà lacerante. Soprattutto per la pressione delle opposizioni che su un nuovo Esecutivo non eletto faranno una campagna elettorale perenne. Quanto costerà ai Democratici in termini di consensi? Quanto gonfierà le vele al populismo? E soprattutto chi si assumerà l’onere – continuando la legislatura – di fare la prossima legge di Stabilità, quella che guarda alla scadenza elettorale del 2018? Questo sarà il rovello.
Prima ancora di fare una scelta sul segretario e sul congresso, c’è quindi una decisione più profonda sulla strategia politica del partito. Dare fiducia a un nuovo Governo che arrivi fino alla fine della legislatura comporta rischi altissimi, dovrà navigare anche tra le turbolenze dell’Europa e dei nuovi assetti internazionali con la vittoria di Trump. Un’impresa complicata che servirà motivare con una ragione politica forte e con una leadership altrettanto forte, in grado di competere con Grillo e Salvini. Più semplice sarà imboccare la strada più corta, quella di indicare un Esecutivo a termine, che faccia la legge elettorale e porti il Paese al voto prima dell’estate.
Ieri Renzi ha passato la palla ai vincenti del No – a loro l’onere del dopo, diceva – mentre c’era già chi invocava il voto subito. Questo sarà il bivio. Se affrontare le urne o dotarsi di una corazza politica così forte da proseguire la legislatura fino alla fine.
Lina Palmerini – IL Sole 24 Ore – 5 dicembre 2016