Durante le recenti vacanze di fine anno, trascorse in Germania per osservare sul campo il concreto sentimento dell’opinione pubblica verso l’indispensabilità dell’euro, ho provato a spiegare a mia figlia di sei anni la crisi italiana.
Ero curioso di verificare la effettiva complessità della situazione che da circa due anni ci fa convivere con dimensioni finanziarie prima ignote ai più: il default, lo spread, gli hedge fund, il Fmi, il prestatore di ultima istanza. Le ho dato gli ingredienti del puzzle: cresciamo poco e, per questa ragione, i tedeschi si rifiutano di far comprare i nostri Btp dalla Bce, l’unica istituzione in grado di produrre liquidità. «Papo, noi italiani dobbiamo lavorare di più e con i soldi guadagnati comprarci i nostri euro (i Btp, ndr) e far vedere alla Germania che sappiamo cavarcela da soli», la breve risposta di mia figlia dopo un minimo di confronto. Far crescere la produttività e l’occupazione con investimenti capaci di produrre quote di mercato globale così da poter avere un pil annuo sufficientemente dinamico da poter rassicurare gli investitori in Btp sulla capacità dell’Italia di rimborsarli a scadenza. In fin dei conti, la crisi italiana non è poi così complessa, si tratta di riformare i meccanismi di produzione e di scambio del Belpaese per allinearli al nuovo contesto globale. E non c’è più molto tempo per farlo, perché è sempre più probabile, come scritto già in altre occasioni, che, se e quando si dovrà effettivamente combattere la battaglia per la salvezza dell’euro, le truppe tedesche non faranno come la fanteria prussiana del generale Blucher, capace di modificare le sorti della battaglia di Waterloo e della Francia bonapartista. Stavolta le armi tedesche resteranno nei forzieri della Bundesbank. Con la Grecia ormai con un piede già fuori dall’euro e con uno dei grandi paesi fondatori, quale l’Italia è, declassato alla serie B dei rating, la situazione europea si è fatta davvero difficile. L’Italia ha ora lo stesso rating dell’Irlanda. Significa che il finanziamento del Fmi si fa più probabile e sempre più rischiosa la gestione delle aste di febbraio dei Btp. Ma se l’Italia ha ora lo stesso rating dell’Irlanda, allora vuole dire che il premier Monti non può più limitarsi soltanto a tassare e liberalizzare. Deve anche ridurre la spesa corrente anche licenziando nel pubblico impiego. A Dublino nel 2008 erano stipendiati 320 mila dipendenti pubblici, già scesi a 300 mila a fine 2011, che saranno 282.500 a fine 2015 come concordato con Fmi e Ue. Un risparmio complessivo di 2,5 mld per le casse pubbliche e un taglio dell’11,7% degli statali a libro paga.
ItaliaOggi – 17 gennaio 2012