Nella battaglia di numeri che tinge di giallo, di arancio, di rosso, persino di rosso scuro, le regioni italiane c’è un problema di fondo: chi garantisce che i dati, sulla base dei quali quei colori vengono assegnati, siano corretti? E chi è responsabile nel caso che non lo siano? «Il caso Lombardia ha evidenziato chiaramente che la raccolta dei dati non ha alcun valore legale: in caso di errore nessuno sembra essere responsabile delle conseguenze. E ha anche mostrato in vari casi come i controlli di consistenza siano stati pochi e tardivi. Bisogna introdurre controlli incrociati, visto che in base alle statistiche si stabiliscono misure che hanno effetti pesanti sulle persone», dice Roberto Battiston, professore di fisica all’Università di Trento che da mesi analizza in modo scientifico l’andamento della pandemia.
Professor Battiston, ora si aggiunge l’allarme degli 007: i dati raccolti non fotograferebbero la situazione reale dei contagi in Italia.
«Anche i servizi di informazione, pur avendo fonti qualificate in tanti settori sensibili, in questo caso specifico non possono che attingere ai dati forniti dalle regioni. E questo dimostra ancora una volta quanto sia importante che vengano raccolti correttamente».
Lei suggerisce un controllo di consistenza. Di che si tratta?
«È una prassi normale ovunque si gestiscano grandi quantità di dati, che si tratti di un esperimento scientifico, di un dato finanziario o demografico. Prima di usarli per prendere decisioni ci si chiede: hanno un senso questi numeri o c’è qualcosa che non va? Se risultasse che l’anno scorso in Italia ci sono state 800mila nascite, mentre la media è di 400 mila l’anno, ci dovremmo subito domandare se è in corso un fenomeno nuovo o se piuttosto siamo di fronte ad un errore».
Con i dati relativi al Covid non lo si sta facendo?
«Purtroppo non abbastanza: l’Istituto superiore di sanità riceve i dati dalle Regioni, a quei dati applica i suoi algoritmi e rimanda indietro il risultato. Ma non necessariamente c’è un controllo di consistenza. E se una regione, anche in buona fede, manda dati non corretti, Roma rischia di prendere decisioni sbagliate».
Qual è il rischio?
«Che sulla base di quei dati si adottino misure che hanno ripercussioni pesanti, come per esempio decretare una zona rossa per errore».
Come evitarlo?
«Appunto con un sistematico controllo di qualità: ci sono incongruenze che potrebbero essere rivelate in tempo. Alcune balzano agli occhi anche solo guardando i dati pubblici, quelli diffusi ogni giorno dalla Protezione Civile, che svolge un preziosissimo servizio pubblico. Per esempio, ci sono cinque regioni in cui l’andamento degli infetti ha mostrato nelle scorse settimane variazioni giornaliere che non possono corrispondere al normale comportamento di una epidemia: si tratta di salti che nulla hanno a che fare con la normale dinamica di diffusione di un virus. Più probabilmente sono frutto di episodi di accumulo o rilascio tardivo di grandi quantità di casi. Il timore è che anche i dati comunicati dalle regioni all’Iss possano, in alcuni casi, soffrire di effetti simili, come è successo nel caso lombardo».
Perché manca questa analisi preventiva dei numeri raccolti?
«Credo che il meccanismo di raccolta dei dati sia stato messo in piedi di corsa, in piena emergenza.
Ma il risultato è che non è a prova di errore: se una serie di dati non sono stati comunicati tempestivamente non succede nulla, possono venire corretti anche settimane dopo. Ma questo rende più difficile seguire l’andamento dell’epidemia. Siamo ad un punto in cui gli errori (anche in buona fede) possono avere conseguenze pesanti e strascichi giudiziari. La linea di raccolta dati andava rafforzata introducendo garanzie di tipo normativo e controlli incrociati».
Il caso più eclatante prima delle ultime polemiche?
«Ai primi di dicembre la Lombardia dichiarò circa 20.000 persone guarite in un giorno, quando la media giornaliera era dieci volte più bassa. Un dato dovuto a casi che probabilmente si erano accumulati nei giorni o settimane precedenti, e che in parte ha falsato l’andamento dell’epidemia. Ma anche in Veneto il dato pubblico è stato a lungo illeggibile: il fatto che la regione sia rimasta in zona gialla per circa tre mesi pur avendo un Rt maggiore di 1 fa riflettere anche sulla qualità dei dati non pubblici».
Professore, come se ne esce?
«Rafforzando a tutti i livelli la coscienza che una buona qualità del dato ci permette di capire e combattere meglio l’epidemia. E adottando misure di controllo incrociato. Ma anche potenziando le competenze di tipo statistico e di analisi dati del Cts, organo che prende le decisioni proprio sulla base delle informazioni che provengono dalle Regioni».
Repubblica – Luca Fraioli