Il decreto legislativo sul federalismo fiscale regionale e i costi standard sanitari è stato oggetto di reiterate modifiche che, secondo il professor Federico Spandonaro, economista dell’Università Tor Vergata di Roma e coordinatore del Ceis Sanità, hanno annacquato il principio di fondo del provvedimento e la sua stessa valenza rivoluzionaria rispetto a usi e costumi assistenzialistici che hanno sempre caratterizzato il nostro sistema sanitario.
La recente approvazione dello Schema di Decreto Legislativo recante disposizioni in materia di autonomia di entrata delle Regioni a statuto ordinario e delle Province, nonché di determinazione dei costi e dei fabbisogni standard nel settore sanitario da parte della Commissione Parlamentare per l’attuazione del Federalismo, segna un nuovo, importante passo nella direzione della realizzazione del Federalismo fiscale. Ad ogni passaggio il testo si arricchisce di nuove indicazioni, a dimostrazione della complessità della materia, e della costante ricerca di un equilibrio fra istanze di efficienza e di equità, ma anche della necessità di una mediazione politica fra principi di responsabilizzazione delle Regioni e garanzie di finanziamento.
Si è più volte intervenuti sulla materia, suggerendo quelli che sembrano punti deboli del dispositivo regolante la determinazione dei costi e fabbisogni standard sanitari: qui si integrano tali osservazioni alla luce delle ultime modifiche intervenute.
Vale la pena di premettere una osservazione di principio a supporto della lettura delle note che seguono: sin dall’inizio ho personalmente abbracciato convintamente l’idea che il federalismo (istituzionale e fiscale) sia un obiettivo valido e necessario, tanto per ragioni di efficienza che di equità; di conseguenza, anche che determinare un criterio condiviso di riparto delle risorse disponibili per i LEA (a parte il nome scelto, “costi standard”, che personalmente considero del tutto infelice) sia una priorità da perseguire in difesa dell’esistenza di un servizio sanitario pubblico universalistico. Non sono invece convinto che si possa decidere bottom?up quale sia il costo (efficiente) per il finanziamento dei LEA, e tanto meno illudersi che l’essenzialità sia cosa diversa da un criterio predefinito, legato anche a considerazioni economiche; tutto sommato, questo obiettivo appare complicazione sostanzialmente inutile: come è ben chiarito nel Decreto (art. 21, comma 1), le risorse disponibili sono quelle considerate macro?economicamente coerenti, quindi è con evidenza una scelta politica, alla quale si può solo far seguire un equo riparto; da questo punto di vista il nuovo comma 1 bis dell’art. 20, che “tira fuori” il fabbisogno sanitario standard da considerazioni di sostenibilità, appare pleonastico e sostanzialmente contraddetto dall’articolo successivo.
Le note che seguono vanno quindi intese come un contributo a far sì che il dispositivo funzioni, correttamente, e non come una forma surrettizia di negazione del principio federalista.
In questa ottica, proprio perché il principio di fondo è in qualche modo rivoluzionario, se non altro rispetto agli usi e costumi “assistenzialisti” che per lo più hanno storicamente prevalso nel nostro Paese, dispiace osservare che le modifiche si susseguono senza fondamento, se non quello di annacquare il dispositivo, in ossequio a mediazioni senza criterio scientifico, che di “rivoluzionario” hanno quindi ben poco.
Un esempio è l’art. 7: nella precedente formulazione peccava di efficacia, rimandando ad accordi pressoché impossibili fra Regioni; ora si passa all’altro estremo, ovvero ad una formulazione centralista che impone la pesature per le sole età, contraddicendo così ogni evidenza scientifica: l’età non è l’unica determinante dei bisogni sanitari e tanto meno dei costi di gestione di un sistema sanitario. Apparentemente, il “blitz” è un modo per decretare vinti e vincitori prima ancora di iniziare la partita, se non fosse che gli “altri” criteri sono poi riesumati nel nuovo art. 22 bis (rimozione delle carenza strutturali), con l’unico esito di generare una contraddizione in termini: non si capisce perché le caratteristiche socio?economiche debbano influire sulle carenze strutturali e non sulla gestione (e sui bisogni) correnti.
Analogamente sembra rispondere ad una logica di (ingiustificata) mediazione politica la presunta esigenza di garantire nel benchmark una rappresentatività in termini di appartenenza geografica (nord, centro, sud), di cui all’art. 22 comma 5: infatti, le differenze fra Regioni della stessa ripartizione geografica, sono spesso maggiori di quelle fra le ripartizioni stesse; di contro la doverosa considerazione delle economie di scala, viene insufficientemente liquidata con l’obbligo di inserire nel benchmark almeno una Regione di piccola dimensione, anche perché la ponderazione per popolazione, annullerà nella sostanza l’effetto di tale inserimento.
Della stessa misura è il nuovo comma 9 bis dell’art. 7, che garantisce che per la Regione più virtuosa il finanziamento non può diminuire: è evidente che se l’algoritmo fosse corretto, e fosse quindi capace di misurare l’efficienza, tale clausola di salvaguardia (finanziaria!) sarebbe inutile, se non dannosa.
In sintesi le modifiche sembrano sostanzialmente peggiorative, e lontane dallo spirito di rigore (prima di tutto scientifico) da cui si era partiti. E i problemi sostanziali rimangono tutti immutati: ne (ri)citerei i seguenti 4.
Prima di tutto la mancanza di un impegno serio a determinare in modo scientifico i criteri di riparto, ovvero i pesi da cui l’esito e la correttezza di tutta l’operazione dipendono; secondariamente, l’inutilità di un algoritmo che di fatto annulla il principio di costo standard, e riduce il riparto alla suddivisione delle risorse per età, sostanzialmente in linea con la spesa storica che si voleva abolire; quindi il principio del riparto per LEA, che nella formulazione attuale è del tutto ininfluente (diverso sarebbe se i benchmark fossero diversi per ogni LEA, ma di questo non c’è traccia nel decreto); infine le molte incertezze sulla reale confrontabilità dei costi sui cui si sceglie il benchmark: a nulla serve il lifting operato al comma 6 dell’art. 5, ove la spesa media pro?capite pesata si è sottilmente trasformata nella “media pro?capite pesata del costo”; sempre di spesa pubblica in sostanza si parla, e per di più riferita alla sola Sanità, a fronte di bilanci in cui sono stati, invece, aboliti i vincoli di destinazione; ragioni quindi di coerenza logica dell’impianto, peraltro rafforzate dalle evidenti incertezze nelle regole e nelle pratiche contabili, e dai rischi di opportunismo, dovrebbero far propendere per un approfondimento della materia.
Federico Spandonaro
Coordinatore Ceis Sanità, Università di Roma Tor Vergata
Quotidianosanita.it – 18 aprile 2011