Marcello Sorgi. Il 17 febbraio 1992, esattamente ventiquattro anni fa, veniva arrestato a Milano Mario Chiesa, uomo destinato a entrare nella storia perché dalla sua vicenda giudiziaria ebbe origine Tangentopoli, cioè la grande inchiesta giudiziaria che portò alla caduta della Prima Repubblica.
Oggi nessuno più se lo ricorda, ma Chiesa, che Craxi definì «un mariuolo» e di mestiere faceva il presidente del Pio Albergo Trivulzio, ospizio pubblico di grande tradizione, ben radicato nel sistema sanitario lombardo, venne incarcerato per una tangente di sette milioni di vecchie lire, tremilaseicento euro alla valuta corrente, per un appalto dei servizi di pulizia dell’istituto che presiedeva: né più né meno per la stessa ragione per cui ieri sono finiti in cella Fabio Rizzi, braccio destro del presidente della Regione Lombardia Roberto Maroni, e Mario Longo, suo stretto collaboratore, che lucravano sull’esternalizzazione e la privatizzazione delle cure dentistiche. Le accuse, anche in questo caso, sono tangenti e turbativa in appalti sanitari che avrebbero favorito un’imprenditrice amica dello stesso Rizzi, Maria Paola Canegrati, che solo nella sua ultima campagna elettorale aveva investito cinquantamila euro.
Prima ancora di stabilire se l’inchiesta che ha investito in pieno la Lega Nord e l’amministrazione a guida leghista della Regione Lombardia sia fondata (ma ai nostri tempi, diversamente dal ’92, i reati vengono contestati sulla base di intercettazioni e di filmati, tal ché le confessioni sono praticamente anticipate già negli ordini di cattura), occorrerà constatare che da quasi un quarto di secolo in Italia l’assistenza sanitaria, cioè un settore tra i più nevralgici del welfare state, e uno degli indicatori di civiltà di un Paese, alimenta un vergognoso sistema di corruzione, che da Milano a Palermo, passando per quasi tutte le regioni, finisce periodicamente nelle maglie di una rete di inchieste che colpiscono pubblici amministratori e funzionari che li affiancano nel malaffare, senza che sia stato possibile trovare antidoti a questa malattia cronica, della quale gli arresti, le tangenti versate in banconote di grosso taglio (come un tempo i riscatti dei sequestri), e i processi che ne conseguono, sono il sintomo, e le riforme annunciate ogni volta (anche questa, dal governatore della Lombardia Maroni) una forma di cura palliativa.
Basterebbe ricordare, infatti, che solo tre mesi fa il vicepresidente della stessa Regione Lombardia, Mario Mantovani, dirigente di Forza Italia e ex assessore alla Sanità, venne coinvolto in un analogo scandalo e accusato degli stessi reati di cui adesso dovrà rispondere Fabio Rizzi. Il quale Rizzi – già medico negli ospedali della Lombardia, tra Como, Sondrio e Varese, prima di iscriversi alla Lega nel fatidico ’92 e buttarsi in politica – , ha una biografia significativa. Che comprende la cosiddetta «rivolta delle scope» animata da Maroni, per far pulizia dopo lo scandalo del cosiddetto «cerchio magico», dei diamanti esportati clandestinamente e della falsa laurea del figlio di Bossi, costata la poltrona di leader al Senatur, fondatore e guida storica del Carroccio. Quattro anni fa, in prima fila tra quelli che reclamavano l’azzeramento del vertice corrotto del partito, e gridavano «Rosy puttana, l’hai fatto per la grana!» contro l’allora vicepresidente del Senato e amica strettissima della famiglia Bossi, c’era proprio Fabio Rizzi, un moralizzatore che grazie al rinnovamento del Carroccio ha fatto carriera e, sempre stando alle accuse, è passato al ruolo di intascatore delle stesse per le quali aveva preso parte al ghigliottinamento del vecchio Bossi.
Solo per dare un’idea di quanto sia cresciuto in Lombardia il giro d’affari della corruzione converrà paragonare i sette milioni pagati a Chiesa, che bastarono a far cadere l’intero edificio della Prima Repubblica, ai quattrocento milioni, tanto è stimato l’ammontare degli appalti sanitari in Lombardia dal 2004 a oggi, e ai centosessanta (centocinque, più dieci, più quarantacinque) che da soli costituiscono il valore delle gare aggiudicate grazie ai pagamenti a Rizzi e a una ventina di funzionari suoi complici.
Tutto questo, non perché non si sia cercato di trovare rimedi a un invincibile meccanismo di corruttela, ma perché quelli trovati non hanno mai funzionato – a parte, ovviamente, le indagini e gli arresti, che purtroppo intervengono a cose fatte. Nel frattempo, sull’onda dell’inarrestabile e diffusa corruzione degli ultimi anni, è caduta anche la Seconda Repubblica. All’inizio della Terza, Renzi, preoccupato di quest’andazzo, ha istituito l’Autorità nazionale anticorruzione, affidandola a un serio magistrato anticamorra come Raffaele Cantone. Ma anche in questo caso, il vaccino non ha funzionato, o almeno non sempre. Tuttavia non bisogna arrendersi. Qualcosa bisogna continuare a fare. Anche se non si sa più cosa.
La Stampa – 17 febbraio 2016