- Moderna ha avviato un’azione legale contro Pfizer e BioNTech. Il loro vaccino contro il Covid-19, Comirnaty, farebbe uso di due innovazioni brevettate da Moderna tra il 2011 e il 2016, riguardo il procedimento di sintesi chimica del mRna e la codifica della proteina spike.
- Lo scontro tra Moderna e i suoi concorrenti si concentra prevalentemente sull’accesso e l’uso della conoscenza per curare le patologie del futuro. Che fare, quindi? Lasciare al mercato il compito di autoregolarsi, con il rischio che si arrivi a un vero duello da film western, nella forma di controversie legali senza fine?
- Emerge, più che mai, il tema di una biotecnologia pubblica. E non si intende, con questa espressione, solo il sostegno alla ricerca, ma l’istituzione di un’infrastruttura capace di curare tutte le fasi del ciclo di vita di un farmaco (come succede a Cuba) e di proprietà pubblica.
Moderna ha avviato un’azione legale contro Pfizer e BioNTech. Il loro vaccino contro il Covid-19, Comirnaty, farebbe uso di due innovazioni brevettate da Moderna tra il 2011 e il 2016, riguardo il procedimento di sintesi chimica del mRna e la codifica della proteina spike.
Ripercorre brevemente la storia di questa biotecnologia ci dimostra però che tra i due contendenti è il terzo, e cioè lo stato, quello che più avrebbe diritto a decidere.
LA SCOPERTA
Chi ha inventato l’mRna? La “madrina” di questa tecnologia è la scienziata Katalin Karikó. Conduce studi pionieristici sul mRna già dalla fine degli anni Settanta, nell’Ungheria del patto di Varsavia. Invitata a fine anni Ottanta negli Stati Uniti dall’università della Pennsylvania, Karikó studia per due decenni, grazie a ingenti finanziamenti erogati dal governo americano, un modo per rendere utilizzabile l’mRna a scopi terapeutici.
In collaborazione con altri colleghi, riesce nel 2005 a trovare una soluzione, sostituendo un composto chimico, la uridina, con un preparato sintetico. Come spesso accade nella storia delle innovazioni, la comunità scientifica del tempo non si accorge di nulla. L’università – pubblica ovviamente – vende la licenza a un’azienda privata, la Cellscript, per circa 300mila dollari. E Karikó deve trovarsi un un nuovo posto di lavoro.
Ma, sempre negli Stati Uniti, qualcuno ha letto accuratamente le pubblicazioni della scienziata ungherese. Si chiama Derrick Rossi, ed è un post doc in genetica molecolare a Stanford. Nel 2010, Rossi fonda una start up e la chiama “Modality mRna”: Moderna. I primi esperimenti condotti dall’azienda su cavie di laboratorio danno risultati promettenti e attirano l’interesse di scienziati e investitori. Questo apre all’azienda la strada della quotazione in borsa, dove arriva a raccogliere diversi miliardi di dollari.
Succede quindi che Moderna, nata cinque anni dopo che Karikó aveva fatto la sua scoperta realizzata grazie a fondi pubblici, paghi 22 milioni di dollari la Cellscript per ottenere la stessa sublicenza venduta precedentemente dall’università (pubblica) della Pennsylvania a 300mila. Una cifra simile a quella pagata, sostanzialmente nello stesso periodo, da un’azienda tedesca, fondata da due scienziati di origine turca, U?ur ?ahin e Özlem Türeci, il cui socio di maggioranza è un fondo d’investimento della famiglia Strungmann. L’azienda si chiama BioNTech e la sua vice-presidente è… Katalin Karikó.
È da questo punto che inizia la gara tra le uniche due imprese al mondo ad avere i diritti e le competenze per utilizzare l’mRna. Come in un film western, i due protagonisti sanno che prima o poi dovranno arrivare a duello. Ne resterà soltanto uno: così prevede il modello di regolazione stabilito dall’accordo internazionale sulla proprietà intellettuale (Trips), per cui chi brevetta un’invenzione farmaceutica ha il diritto esclusivo al suo sfruttamento commerciale per vent’anni.
CON SOLDI PUBBLICI
Fino al 2020 lo scontro finale è rimandato: nessuna delle due aziende tira fuori niente di abbastanza maturo da arrivare sul mercato. Moderna, nel 2019, aveva un bilancio con un passivo di 500 milioni di dollari. BioNTech, nello stesso anno, presentava un deficit di 180 milioni di euro. L’arrivo della pandemia però cambia tutto. Bisogna fare presto, e l’mRna è più duttile e rapido di qualsiasi altra piattaforma biotecnologica concorrente. È l’occasione della vita, per le due piccole aziende. Alla fine del 2021, Moderna registrerà profitti per 18,5 miliardi, mentre BioNTech per 19,5.
L’mRna, insomma, non nasce in un’azienda privata, ma nelle università pubbliche, e deve il suo sviluppo a risorse finanziarie e conoscenze maturate prevalentemente in ambito pubblico. Se si considerano solo gli Stati Uniti, e solo il 2020, i contributi erogati per lo sviluppo, test e messa in produzione dei due vaccini a mRna sono stati pari a 10 miliardi di dollari. A questo si aggiungono i pre-acquisti – senza rimborso in caso di fallita sperimentazione – dell’Unione europea, la strategia del cosiddetto Derisk.
Inoltre, il vaccino non sarebbe stato sviluppabile senza la molecola “2P mutation”, che consente di bloccare la capacità di replicazione della proteina spike. A ingegnerizzarla sono stati Barney Graham e Jason McLellan, dell’istituto pubblico statunitense Nih, che ne possiede il brevetto. Anche su questo punto, Moderna ha avviato una controversia.
Lo scontro tra Moderna e i suoi concorrenti si concentra prevalentemente sull’accesso e l’uso della conoscenza per curare le patologie del futuro. Che fare, quindi? Lasciare al mercato il compito di autoregolarsi, con il rischio che si arrivi a un vero duello da film western, nella forma di controversie legali senza fine? Con il rischio che le potenzialità terapeutiche di una biotecnologia restino impigliate per anni negli scontri legali tra aziende private? Che, in ultima istanza, si rallenti, pur di tutelare il diritto alla proprietà intellettuale privata, l’innovazione e la scienza?
Emerge, più che mai, il tema di una biotecnologia pubblica. E non si intende, con questa espressione, solo il sostegno alla ricerca, ma l’istituzione di un’infrastruttura capace di curare tutte le fasi del ciclo di vita di un farmaco (come succede a Cuba) e di proprietà pubblica. È su questa falsariga che si muove la proposta di Massimo Florio e di altri economisti, rilanciata anche dal Forum diseguaglianze e diversità, raccolta in uno studio in discussione al parlamento europeo.
Domani
Dispiace che, ad oggi, nessuno dei più importanti partiti italiani abbia espresso un’opinione in merito.