Antonella Viola, La Stampa. Non può esistere una vera democrazia senza uguaglianza nei diritti essenziali per tutti i cittadini. Se condividiamo questo pensiero, se ci crediamo fino in fondo, non possiamo che guardare con estrema preoccupazione al disfacimento della sanità pubblica in Italia. Difendere il diritto alla migliore cura possibile per ogni persona, indipendentemente dal suo reddito e dalla zona in cui vive, è dunque una battaglia che dobbiamo combattere tutti, anche chi può permettersi lussuose cliniche private in Italia o all’estero. Purtroppo, però, da molti anni la tutela del Servizio Sanitario Nazionale non è una priorità per la politica. Il nostro Paese investe poco in sanità pubblica, meno di molti altri Paesi europei e, secondo l’ultimo rapporto (2022) del Centro per la ricerca economica applicata in Sanità (CREA), al finanziamento della sanità pubblica italiana mancano almeno 50 miliardi per avere un’incidenza media sul Pil analoga agli altri paesi dell’Unione europea.
Una delle conseguenze degli scarsi investimenti è la fuga di medici e infermieri, perché pagati meno che negli altri Paesi e perché spesso costretti a lavorare in pessime condizioni. Chi non va via, per guadagnare di più può optare per l’intramoenia, facendo attività privata nei luoghi pubblici. Questo si riflette nei problemi che tutti sperimentiamo ogni volta che abbiamo bisogno di una prestazione sanitaria: tempi d’attesa estenuanti e spesso inaccettabili, a meno di non pagare di tasca nostra; costi per farmaci e terapie che gravano sulle famiglie, troppo spesso costrette a rivolgersi alla sanità privata; assenza di strutture a cui fare riferimento per tutte quelle condizioni che non richiedono il pronto soccorso.
Il quadro è reso ancora più complesso dalla condizione demografica del nostro Paese: gli italiani sono i più anziani d’Europa, non solo a causa della bassa natalità ma anche perché molto longevi. In media, però, i nostri anziani vivono gli ultimi 20 anni della loro vita in presenza di malattie e disabilità ed hanno quindi bisogno di un’assistenza sanitaria specifica per la loro condizione. In altri termini, mentre il cambiamento demografico del Paese richiederebbe «più» sanità pubblica, assistiamo da tempo a un costante impoverimento del SSN.
Cosa fare dunque? Certamente non accontentarsi delle briciole che il ministro Schillaci riuscirà a racimolare. Non bastano. E non basterebbe neanche raddoppiare la cifra che sarà messa a disposizione. Serve invece un’azione strategica che rimetta al centro il valore della salute dei cittadini e che inizi a ricostruire partendo da questo. Bisogna invertire la rotta della privatizzazione e restituire al sistema pubblico il suo ruolo centrale di un tempo, puntando sulla qualità del lavoro e sulla meritocrazia. E occorre riconsiderare il ruolo della prevenzione come strategico per la sostenibilità della sanità pubblica. Gli investimenti in prevenzione sono da sempre scarsi, insufficienti. E, invece, la strada per ridurre la spesa sanitaria passa proprio attraverso un maggiore investimento nella prevenzione e nell’educazione dei cittadini, specie i più giovani, ai corretti stili di vita. Ma soprattutto va cambiata radicalmente l’idea della spesa sanitaria come un costo da ridurre, contenere, tagliare. Ciò che si spende in sanità non rappresenta un costo ma un investimento. E investire in salute è una delle migliori scelte che una società civile, lungimirante e democratica possa fare. —