di Giovanni Valotti, Università Bocconi. Caro direttore, possiamo continuare a lamentarci del settore pubblico, ma dobbiamo prendere atto che l’efficienza delle amministrazioni pubbliche influenza in modo decisivo la competitività delle nostre imprese, la capacità di un Paese di attrarre investimenti, e, non da ultimo, la qualità della vita di tutti noi.
La riforma della Pubblica amministrazione è la madre di tutte le riforme. Undici decreti sono stati licenziati dal governo nelle ultime settimane, in attuazione della legge delega Madia.
Uno, tuttavia, sta tardando. Ed è forse il più importante di tutti. Si tratta del decreto di riforma della dirigenza pubblica. Da tempo si dibatte sulla qualità della classe dirigente nel settore pubblico. Chi la dipinge come un accrocchio inestricabile di interessi finalizzati al mantenimento dello status quo, tendenzialmente incompetente e conservatrice, incapace di esprimere una capacità di guida delle organizzazioni che non si limiti semplicemente ad un astratto rispetto delle regole, causa principale di lentezze, sprechi e rigidità. Chi si erge a strenuo difensore della stessa, ultimo baluardo di un’antica e nobile tradizione burocratica, capace di difendere le istituzioni e l’interesse pubblico dall’attacco scellerato di interessi partitici e corporativi, in grado di assicurare equità di trattamento a cittadini e imprese.
Probabilmente, in realtà, nella classe dirigente pubblica c’è un po’ di tutto. Così come tra i giornalisti, gli imprenditori, i professori universitari, piuttosto che gli avvocati. Con una grande differenza: nel settore pubblico i dirigenti tendono ad essere trattati tutti nello stesso modo, capaci ed incapaci, onesti e disonesti, responsabili e irresponsabili.
Non c’è tuttavia nessuna organizzazione al mondo che possa cambiare senza un rinnovamento, profondo, della propria classe dirigente. E non esiste nessuna organizzazione eccellente che non si contraddistingua per quanto investe sulla selezione, crescita e motivazione dei propri dirigenti. Nel nostro Paese abbiamo un esercito di circa ventimila dirigenti pubblici. Persone tutte diverse tra di loro ma che, nell’insieme, esprimono caratteristiche più coerenti con il passato che con quanto servirà in futuro. Senza entrare nel merito di complicate analisi statistiche, è facile affermare che abbiamo bisogno di dirigenti un po’ più giovani, più internazionali, un po’ meno legulei, con solide capacità manageriali e, non da ultimo, più innovativi e intraprendenti.
Ebbene, c’è sul piatto un’occasione storica. Il tasso di turnover dei dirigenti pubblici, principalmente per pensionamenti, è intorno al 7%. Questo significa che in sette anni abbiamo la possibilità di sostituire circa il 50% dei dirigenti pubblici oggi in servizio. Sicuramente perderemo qualche campione. Ma il potenziale di trasformazione del sistema è enorme. Purché cambino, drammaticamente, i criteri di selezione della dirigenza pubblica.
La nostra Costituzione prevede che l’accesso alla dirigenza nel settore pubblico avvenga tramite concorso. Evidenti gli obiettivi di imparzialità ed equità di trattamento sottesi a questa previsione. Disastrosi gli effetti. I concorsi per l’accesso alla dirigenza sono, infatti, una delle espressioni più anacronistiche del settore pubblico. Quale organizzazione eccellente, pubblica o privata che sia, selezionerebbe mai i propri leader sulla base di due temi scritti nozionistici e di una interrogazione orale? Quale impresa mai esternalizzerebbe la funzione di selezione dei propri dirigenti, affidandola ad una commissione di esperti, nessuno dei quali di regola esperto in processi di selezione? L’imparzialità è un valore irrinunciabile e cha va difeso con determinazione. L’efficacia delle selezione, ovvero la capacità di attrarre e individuare davvero il candidato migliore, altrettanto e forse ancora di più.
Nei Paesi europei più avanzati si sono introdotte da tempo metodologie di selezione professionali, capaci davvero di comprendere le qualità reali dei candidati, rispetto al ruolo da esercitare. Si valutano quindi le competenze manageriali, le abilità relazionali, le attitudini, l’orientamento al risultato, le capacità motivazionali. Si prende in grande considerazione la storia professionale delle persone, ovvero i risultati che sono stati capaci di produrre. Si raccolgono referenze, che nulla hanno a che fare con le raccomandazioni. Non c’è alcuna verifica delle conoscenze nozionistiche che si danno per scontate e rappresentano una precondizione, al punto che nessuno si sognerebbe di presentarsi ad un concorso se non le detenesse. Non da ultimo, si studiano processi accelerati di carriera per i giovani ad alto potenziale.
Qualche tempo fa sulle colonne di questo giornale, in un grande pezzo di giornalismo Ferruccio de Bortoli si chiedeva dove fosse finita «una classe dirigente responsabile, preoccupata anche dell’interesse generale, in grado di esprimere un indirizzo, un’idea di società, come quella che nel Dopoguerra rese possibile il miracolo economico. Insomma fiera di dirigere, non sfacciata nell’esigere. Dedita per prima a dare il buon esempio». Ebbene, questa classe dirigente da qualche parte c’è. Bisogna solo scovarla e farla emergere. Il ministro Madia, con il suo decreto di riforma dei criteri di accesso e selezione della dirigenza pubblica, può darci una grande mano.
Il Corriere della Sera – 1 marzo 2016