Paolo Gubitta, Il Corriere del Veneto. Da una parte, l’allarme lanciato in Veneto sui bandi di concorso per medici che vanno deserti o che riescono ad attirare un numero di candidati inferiore ai posti disponibili, così da lasciare scoperte posizioni chiave all’interno dei nostri ospedali. Dall’altra, la preoccupazione per la possibile fuga verso la pensione dei medici che rientrano nei parametri di «Quota 100», l’ipotesi di trovare degli incentivi per convincerli a rimanere in corsia e il puntuale riaffiorare, come una sorta di fiume carsico, della questione del numero chiuso a medicina. Infine, i funzionari di strutture sanitarie straniere che arrivano in Veneto e in incognito (si fa per dire) corteggiano i nostri medici con pacchetti retributivi competitivi.
Il dibattito che si è aperto attorno ai 1.295 medici che mancano in Veneto è stucchevole. Vediamo perché. La formazione del capitale umano è un processo di per sé lungo e per alcune professioni dell’area sanitaria (tra cui, appunto, i medici) lo è ancora di più. La carenza di competenze (skill shortage) di cui si discute oggi non può passare come un fulmine a ciel sereno: è una situazione che poteva essere prevista. Le tecniche consolidate di programmazione del personale permettono di individuare con largo anticipo i fabbisogni di personale
Permettono di avviare per tempo le azioni correttive, per evitare il rischio di non avere le persone da collocare nelle posizioni strategiche. È impossibile pensare che non siano state fatte simili proiezioni e, quindi, la ragione dell’attuale deficit va trovata altrove.
I neolaureati in medicina che intendono lavorare in ospedale devono frequentare una Scuola di specialità: nel nostro Paese, questa opportunità è offerta al 70% dei laureati (al 90% in Veneto). Al netto di quelli che optano per fare i medici di base (percorso ad hoc di tre anni), agli altri restano due strade. La prima è mettersi in coda e aspettare che si liberi qualche posto in una Scuola di specialità: oltre ad essere deprimente, è un costo per le famiglie e per la società. Provate solo a immaginare il disagio (eufemismo) che avranno provato i «mancati specializzandi» nel leggere che oggi non ci sono medici a sufficienza, visto che per quei posti avrebbero potuto concorrere loro se ci fossero stati più posti disponibili. La seconda strada è prendere la via dell’emigrazione per causa di forza maggiore. In sostanza, il modello formativo che il nostro Paese, più o meno consapevolmente, ha adottato non onora il patto formativo implicitamente sottoscritto con le matricole di Medicina ed è il principale artefice dell’emorragia di capitale umano qualificato. Rispetto a questo quadro, prendersela con «Quota 100» vuol dire stravolgere la realtà invece di affrontarla di petto. C’è poi l’annoso tema del numero chiuso per Medicina. Rimuoverlo per una necessità contingente equivale a fare un «condono fiscale»: è demagogico, è diseducativo e, nel caso specifico, è anche inefficace. La sequenza delle azioni da intraprendere è stata ben delineata dal Rettore dell’Università di Padova: eliminare il collo di bottiglia dei posti disponibili nelle Scuole di specialità; aumentare il numero di matricole di Medicina in linea con i fabbisogni espressi dal sistema. Altro che prendere la scorciatoia della liberalizzazione degli accessi.
Resta infine il tema della mobilità dei medici sul mercato del lavoro. La realtà è che anche nel sistema sanitario non è chiara la strategia di employer branding, per convincere i medici che abbiamo a rimanere dove sono, per attirare medici da altri mercati e per offrire ai più giovani le opportunità di costruire qui il loro futuro. Con livelli retributivi rigidi e poco competitivi, serve esplicitare cosa il sistema offre in termini di benefici funzionali, intangibili e psicologici per dare all’esperienza lavorativa un senso più ampio del mero stipendio. Tra dare incentivi per posticipare i pensionamenti di chi è al termine della carriera e puntare tutte le risorse possibili sulle Scuole di specialità per chi la deve ancora iniziare, non c’è paragone.