Il Sole 24 Ore. Due anni di inflazione in corsa sono bastati a mangiarsi gli effetti di un decennio di tagli all’Irpef. Il conto, impietoso, emerge dalle tabelle del capitolo fiscale nel ricchissimo rapporto annuale presentato ieri dall’Ufficio parlamentare di bilancio. Gli analisti dell’Autorità parlamentare sui conti mettono a confronto il reddito disponibile oggi con quello del 2014, a parità di potere d’acquisto. Il risultato è il conto dell’impatto reale di un decennio avviato dal Bonus Renzi da 80 euro, proseguito con la sua estensione a 100 euro operata dal Governo Conte-2 per arrivare alle quattro aliquote targate Mario Draghi poi ridotte a tre per quest’anno dalla scorsa legge di bilancio del Governo Meloni.
Gli interventi hanno in sé una successione logica. Perché se gli 80-100 euro hanno guardato ai redditi più bassi, determinando quindi uno scalone d’imposta per quelli delle fasce immediatamente superiori, le successive riforme nell’architettura delle aliquote si sono concentrate sui redditi medi per ricostruire una effettiva «curva» dell’Irpef.
Ma il conto reale, che guarda al potere effettivo d’acquisto taglieggiato dall’inflazione, è negativo. Perché, come si legge nel Rapporto, i lavoratori dipendenti, cioè «i soggetti che hanno beneficiato maggiormente degli interventi normativi di riduzione dell’imposta nei dieci anni considerati, hanno ottenuto un vantaggio pari a circa il 3% del reddito imponibile. Questo beneficio viene tuttavia più che compensato se si tiene conto dell’effetto del drenaggio fiscale, pari a circa 3,6 punti percentuali». Per i pensionati, lo squilibrio è maggiore e arriva ad aumentare il carico fiscale a parità di potere d’acquisto dell’1%, mentre comprendendo anche le altre tipologie di reddito il risultato è un aumento del carico dello 0,72 per cento. Fra i dipendenti, a quota 25mila euro lordi annui gli interventi sull’Irpef hanno offerto 991 euro di reddito disponibile, ma l’inflazione del periodo ne ha chiesti 1.343 con un saldo negativo di 352. Lo stesso effetto torna praticamente in tutte le fasce di reddito, con l’unica eccezione di chi si trova a 35mila euro: le riduzioni di aliquote hanno concentrato i loro effetti proprio su questi livelli di reddito, che quindi spuntano ancora un mini-saldo positivo da 85 euro all’anno.
Proprio qui si incontra però il difetto cruciale del taglio al cuneo, che contribuisce a migliorare drasticamente il saldo per quest’anno, l’unico per il quale al momento è in vigore, ma spiazza i conti di chi si trova vicino al limite dei 35mila euro oltre il quale la decontribuzione si ferma. In questo caso, nei calcoli Upb basterebbe un solo euro per perdere 1.100 euro di potere d’acquisto, con un’aliquota marginale effettiva del 110.000% inedita anche per il bizzarro fisco italiano (nel passaggio da 25mila a 25.001, quando lo sconto si riduce da 7 a 6 punti, la perdita di reddito è di 150 euro, con un’aliquota marginale del 15.000%).
Proprio su queste basi la presidente dell’Upb Lilia Cavallari ha avvertito nella relazione che oltre alle «coperture strutturali», «l’eventuale conferma della decontribuzione richiederà correttivi per evitare gli effetti distorsivi che si verificano in prossimità delle soglie di applicazione». La soluzione è già stata elaborata dal Governo, da cui già lo scorso anno era filtrata l’ipotesi di un decalage che avrebbe evitato salti così enormi oltre a ridurre un po’ i costi dell’intervento. Ma ha bisogno di un avallo politico che al momento manca.
La contrarietà invece è già netta su altri ripensamenti proposti dall’Upb. A partire da quello sulla cosiddetta Flat Tax degli autonomi. A parità di capacità contributiva la tassa determina un «differenziale di carico fiscale molto ampio e crescente con il reddito» rispetto ai dipendenti, e «introduce disparità non giustificate da ragioni di capacità contributiva». Ma sembra piacere troppo per essere messa in discussione.