di Dario Di Vico. Una volta ci si chiedeva se il sindacato in una data vertenza avesse ragione oppure no, oggi molto più brutalmente ci si chiede se le grandi confederazioni sopravviveranno oppure no. A determinare questo slittamento di giudizio non è intervenuto un episodio-clou come una nuova marcia dei 40 mila e nemmeno ci sono file di iscritti che stracciano la tessera davanti alla sedi di Cgil-Cisl-Uil, a condurre il sindacato verso l’irrilevanza è un’erosione combinata nella capacità di leggere il mutamento, nell’autorevolezza e nella rappresentatività.
Se proprio volessimo trovare un incipit di questo declino potremmo prendere quel carrello della spesa che nel 2009 Leonardo Del Vecchio decise di distribuire ai suoi dipendenti per attutire i colpi della crisi. Da quell’iniziativa di «ristoro economico» è nata una politica di welfare aziendale molto apprezzata dai lavoratori bellunesi, replicata in diverse altre aziende, ma che è stata vista sempre con un certo distacco dal sindacato. Il segnale era chiaro: gli imprenditori riprendevano l’iniziativa sociale, non lasciavano più il monopolio della difesa del reddito dell’operaio al sindacato e avviavano una politica di scambio nuova. Tutele in cambio di produttività.
Nei giorni scorsi ad Agordo si è tenuto l’open day e Del Vecchio ha incontrato operai e famiglie in quella che le cronache locali hanno presentato come una festa. Oltre a ribadire l’appartenenza a una comunità di lavoro sta per partire da casa Luxottica un nuovo esperimento originale, la staffetta generazionale. Usciranno degli anziani ed entreranno dei giovani, in qualche misura magari si alterneranno anche padri e figli. L’Inps ha detto sì e vedremo cosa accadrà.
Il mutamento viene dal Nord Est e si inserisce in un contesto nel quale mai come adesso sindacati e imprese sono ai ferri corti. È stata in qualche maniera la politica, ovvero Matteo Renzi a pigiare l’acceleratore scandendo a Cernobbio che la riforma della contrattazione «o la fate voi o intervengo io». E da quel momento tutto è diventato più veloce. Giorgio Squinzi si è lasciato alle spalle le remore del quieto vivere e ha sfidato il veto della Cgil. Il welfare aziendale nella strategia confindustriale avrà un ruolo fondamentale perché come ha detto venerdì sera ad Assisi il presidente potrà servire anche a surrogare quote di salario.
Ma più in generale se una volta il governo delle relazioni industriali era appannaggio della coppia imprese-sindacati, ora gli industriali cominciano a pensare che sia possibile (o doveroso) far da soli. E che la bilateralità non debba essere più il format con cui si affrontano i bisogni e il cambiamento. Insomma per difendere la condizione del lavoro non si deve passare per forza da Cgil-Cisl-Uil. In fondo ci sono altri grandi imprese — prendiamo per tutti la Ferrero — che di questo credo hanno fatto un elemento di successo e nelle Pmi avviene così da sempre. Siamo alla vigilia di quella che si usa chiamare una rivoluzione copernicana? Ci avviamo a diventare una società post-sindacale?
È chiaro che siamo solo alle prime battute ma quelli che ho riferito sono i discorsi che si sentono fare nel mondo confindustriale, solo un anno fa non era così. Ed è singolare che avvenga sotto la presidenza Squinzi, che non ha mai firmato un contratto dei chimici senza la Cgil. L’azienda di domani sarà una comunità che deve obbedire al mercato, agire dentro le leggi vigenti ma che coltiva la responsabilità sociale verso i propri dipendenti, anzi collaboratori. L’attenzione alla previdenza complementare, alle spese sanitarie oppure alla scuola dei figli fanno parte di questo cambiamento. Tentano di costruire una società più giusta con meno sindacato, un’equazione che finora è stata considerata una bestemmia.
È chiaro che se i padroni saranno capaci di lanciare davvero questa sfida coglierebbero il sindacato in un momento di profonda difficoltà. Secondo i primi risultati di una ricerca sulla Cisl lombarda coordinata da Giancarlo Rovati, direttore del dipartimento sociologia dell’Università Cattolica di Milano, il macro-fenomeno che emerge è la distanza con le nuove generazioni. Gli iscritti sotto i 40 anni sono solo il 27%, quota che tra i delegati scende al 16%. Tra le professioni più qualificate i delegati però non raggiungono il 10%. Mediamente le Rsu hanno 29 anni di lavoro e sono iscritti da 18 alla Cisl.
È certamente vero che in questi anni sono stati pochi i giovani che sono entrati in fabbrica ma anche con quelli che il lavoro se lo sono trovato la relazione è ai minimi. I ventenni che aprono la partita Iva, che affollano i coworking o i talent garden hanno passato il Rubicone: pensano che la migliore tutela professionale della loro azione sia il successo dell’impresa che conducono. Dentro Cgil-Cisl-Uil, invece, si discute ancora se una cassiera o un commesso del supermercati debba impegnarsi attivamente per far crescere i ricavi del suo punto-vendita oppure se ne debba infischiare.
Se dal rapporto con gli iscritti passiamo all’esame del sindacato-organizzazione la sindrome di chiusura appare ancora più netta. Negli anni d’oro del sindacalismo italiano le confederazioni sono state un potente veicolo di mobilità sociale, hanno fatto diventare dirigenti o quadri intermedi un numero incredibile di impiegati e operai. Per rendere possibile questa immissione hanno ampliato le strutture (patronati e Caf) e costruito un’organizzazione pluri-livello in cui sono in tanti a potersi fregiare della qualifica di «segretario».
Per una lunga fase un modello, pure pletorico, è rimasto comunque in sintonia con il mutamento sociale perché i neo-dirigenti ne erano comunque diretta espressione. Da questa leva di sindacalisti sono nati anche quadri che sono andati — con alterne fortune — nelle imprese, in politica o nelle amministrazioni locali. Chi è rimasto non ha avuto il contributo di altri cicli di mobilità sociale e non ha trovato in sé la forza di assicurare il ricambio, ha finito per blindare la propria funzione e la propria carriera. Si è seduto a tutti i tavoli della concertazione e da questa pratica ha ricevuto un’investitura a considerarsi un «manager del sociale». Non è un caso che il numero uno della Uil, Carmelo Barbagallo, difendendo il suo stipendio scriva al Corriere che è in linea con quello di un manager o di un alto dirigente dello Stato.
Ma come si è visto con la polemica scoppiata in Cisl a metà agosto questa investitura è stata anche sancita con meccanismi di privilegio che hanno riservato a molti dirigenti sindacali assegni pensionistici che si possono definire assai generosi. Come possono questi dirigenti attempati culturalmente ancor più che anagraficamente capire il mutamento delle fabbriche?
È più facile per loro, come ha detto di recente Bruno Manghi, «sedersi davanti a una telecamera televisiva due-tre volte a settimana, mentre il loro lavoro sarebbe un altro». Così molti di loro non sanno nemmeno quanto siano cambiate le fabbriche. Parlano ancora di un operaio generico che non c’è più, mentre gli impianti sono pieni di ingegneri e operai qualificati che di tutto hanno bisogno tranne che di un sindacato-commodity.
Il Corriere della Sera – 27 settembre 2015