La Stampa. Proprio perché ha dichiarato più volte che sa di non sapere, Alberto Mantovani, 72 anni, immunologo di fama internazionale e direttore scientifico dell’Humanitas di Milano, si è confermato durante la pandemia come uno degli studiosi più autorevoli.
Durante la prima fase ha definito medicina di guerra quella di emergenza per le cure. L’utilizzo del vaccino AstraZeneca, efficace al 62%, va considerato allo stesso modo?
«Direi di no, e mi piace chiamarlo Oxford-AstraZeneca, perché è il risultato dell’interazione virtuosa tra università e industria. È presto per confrontare l’efficacia dei vaccini, che dipende molto da come si guardano i dati».
Eppure la stessa autorità italiana, l’Aifa, fa dei distinguo.
«Gran Bretagna ed Ema lo hanno autorizzato per tutti. La Germania per gli under 65. L’Aifa lo ha raccomandato agli under 55 e ora anche agli over 55 in buona salute. Una variabilità dovuta ai pochi dati su quelle fasce di età. Va detto però che questo vaccino garantisce una buona produzione di anticorpi. Inoltre, un articolo di Science mostra come i vaccini basati su adenovirus, cioè Oxford-AstraZeneca, Janssen (di Johnson & Johnson), Reithera, il russo Sputnik e il cinese CanSino, attiverebbero le cellule Mait per la difesa della mucosa cellulare, un nuovo attore sulla scena. Si può sperare che questi vaccini proteggano anche dalla trasmissione oltre che dalla malattia».
Anche i vaccini a Rna proteggono dalla trasmissione?
«Ci sono ancora dati limitati, ma si può presumere di sì».
Come si spiega questi ritardi nella produzione?
«Non sono sorpreso. Non è la prima volta che i vaccini hanno incidenti di percorso. In questo caso poi va ricordato che si tratta di produzioni nuove, complesse, su larga scala e portate avanti in fretta per l’emergenza».
Che tempi prevede?
«Qualche ritardo sul cronoprogramma lo sconteremo. Non mi preoccupa tanto la produzione, quanto l’organizzazione. L’Italia si sta muovendo meglio di altri Paesi e spero continui così anche quando la vaccinazione uscirà da ospedali e Rsa e andrà sul territorio».
Bertolaso punta a vaccinare i lombardi entro giugno e Von der Leyen il 70% degli europei entro l’estate. Possibile?
«Non lo so, molto dipenderà dall’organizzazione e dal ruolo delle varianti. L’Italia si muove bene nelle emergenze, per cui auguriamoci che questi obiettivi vengano raggiunti».
Ha senso iniziare una produzione italiana di vaccini?
«Si tratta di prodotti raffinati su cui non ci si può improvvisare, anche se il nostro Paese è un grande produttore di vaccini. Ci si può augurare, come avvenuto con l’accordo Pfizer-Novartis, che aziende libere con la capacità adatta si alleino con le case farmaceutiche che hanno trovato i vaccini per aumentarne la fabbricazione».
I vaccini russi e cinesi sono affidabili?
«I dati usciti su Lancet sullo Sputnik sono molto buoni: vanno approfonditi e mi auguro che vengano sottoposti all’Ema. CanSino ha risultati positivi ma molto diversi tra loro. Se superassero il controllo dell’Ema sarebbero risorse in più».
La vera speranza è l’arrivo di Janssen a fine marzo?
«Sì, perché si fa con una dose, ma anche Oxford-AstraZeneca partì così e poi trovò utile aggiungere la seconda. Non a caso Janssen porta avanti anche uno studio con due dosi. Anche su questo deciderà l’Ema».
A quanto fissa l’immunità di gregge?
«La stima approssimativa è del 70 per cento, poi dipenderà da eventuali varianti».
Quanto dura l’immunità in guariti e vaccinati?
«Sui vaccinati ci sono dati solidi sui sei mesi. Per i guariti anche, ma uno studio sul personale sanitario inglese dice che il 20% si può riammalare. La sintesi è che la risposta immunitaria è buona e potrebbe durare anche un anno o due. Per questo i guariti potrebbero rimanere in coda per i vaccini e far passare avanti gli altri».
Renderebbe i vaccini obbligatori?
«Non in questa fase. Per gli operatori sanitari sono per attendere marzo e valutare la situazione e riguardo agli altri per aspettare la fine della campagna e imporre l’obbligo solo se servisse a raggiungere un obiettivo. Anche sulla patente di immunità ci sono pochi dati per stabilirne la durata».
La pandemia sarà finita quando lo sarà in tutto il mondo?
«Sì e trovo straordinario come ci si preoccupi delle varianti senza contare che provengono da Africa e Brasile, oltre che da Inghilterra e Stati Uniti. Questo potrebbe ripetersi anche durante o dopo la campagna vaccinale, costringendoci a rinnovarla, per cui servono investimenti ingenti per sconfiggere la pandemia ovunque. Una volta ci volevano dieci anni perché un vaccino passasse dai Paesi ricchi a quelli poveri. Non potremo essere così immorali e miopi».
Preoccupato dalle varianti?
«La domanda è: le difese immunitarie attivate dai vaccini le riconoscono? Per ora abbiamo dei dati sugli anticorpi, ma non sui linfociti T, che sono i direttori dell’orchestra immunologica. Secondo i primi saremmo protetti dalla variante inglese e meno bene dalla sudafricana, che però dovrebbe prima arrivare da noi e diventare prevalente per impensierirci. Conclusione: non fasciamoci la testa prima di romperla, ma investiamo per sequenziare il virus in Italia e monitorare la situazione».
Le varianti sfuggono anche agli anticorpi monoclonali?
«È una possibilità non tanto per l’oggi, quanto per le future varianti».
Perché gli anticorpi monoclonali usati da mesi in Usa, tanto che hanno salvato Trump, non sono ancora autorizzati in Europa?
«Le autorità europee hanno da sempre un atteggiamento prudente. Va detto che i monoclonali in alcune fasi della malattia hanno fallito, mentre hanno dato dei risultati nella parte iniziale, da soli o in combinazione con inibitori delle citochine. C’è da augurarsi che vengano presi in considerazione non solo quelli americani, come Regeneron e Lilly, ma anche gli inglesi in sperimentazione e quelli cui lavora Rino Rappuoli in Toscana».
Come si orienta tra zone gialle, ristoranti dove cadono distanze e piste da sci?
«Per favore, non abbassiamo la guardia e usciamo con moderazione. Mia moglie voleva prendere una pizza coi nipoti e le ho raccomandato: sì, però con attenzione». —