“Negare il diritto alla salute significa trasformare il cittadino in un cliente e considerare la salute come una merce”, recita così la quarta di copertina dell’ultimo libro di Luca Benci, il giurista, esperto di diritto sanitario e biodiritto, collaboratore di Quotidiano Sanità e coautore del nostro instant book sulla riforma delle responsabilità professionale. Questa volta Benci esce parzialmente fuori dai margini stretti del diritto per andare a toccare un tema che, proprio in questi ultimi giorni ha visto diversi interventi anche sul nostro giornale: il rischio di un ritorno alle mutue sanitarie e di una privatizzazione, palese o meno, della nostra sanità pubblica nata nel 1978.
Dottor Benci, “Diritto alla salute, negato, privatizzato e mercificato”. Questo è il sottotitolo del suo ultimo libro. Ma le cose stanno veramente così?
Il sottotitolo del libro segue il titolo che è Tutela la salute, non a caso la citazione della Costituzione. Nell’ambito del diritto alla salute molto è stato fatto negli scorsi decenni per l’attuazione del principio costituzionale e gravi sono rimaste alcune carenze. Negli ultimi anni in nome della “sostenibilità” del Servizio sanitario nazionale una parte dei diritti acquisiti precedentemente, sono sotto attacco e i meccanismi – perché di tali si tratta – di negazione, privatizzazione e mercificazione si sono intensificati. I risultati sono sotto gli occhi di tutti e la retorica del Servizio sanitario più equo del mondo è ormai un paravento che nasconde realtà che sono sotto gli occhi di tutti. In particolare il fenomeno del c.d. undertreatment che consiste nelle sempre più ampie zone di non cura: una parte dei cittadini che rinuncia a curarsi per motivi economici. Se il diritto alle prestazioni sanitarie è subordinato – in parte ovviamente – alla capacità di acquisto si trasforma la salute in una “merce” acquistabile al pari di altri beni. Non è retorico sottolinearlo.
Lei parla di sottofinanziamento della sanità mettendo tale decremento di fondi in relazione con una parallela volontà di aprire al privato (mutue o assicurazioni). In realtà la tendenza si è interrotta negli ultimi due anni e il fondo sanitario ha iniziato a risalire…Mantiene i suoi timori?
Ho scritto questo capitolo prima delle ultime polemiche aperte dall’articolo di Ivan Cavicchi sulle pagine di Quotidiano sanità. Lo stesso Cavicchi ne aveva parlato nel libro La Quarta riforma. I miei timori sono giustificati e si sono rafforzati. Quando importanti parti politiche, oggi le più influenti in Italia, parlano della necessità dello Stato di dover garantire un “pavimento di diritti” su cui si innestano diritti ulteriori “costruiti con la contribuzione individuale e collettiva” si intende proprio questo: “pavimento” cioè diritti minimi riconosciuti a tutti e “ulteriori” diritti “acquistabili” nei modi che verranno stabiliti.
Ecco allora la proposta di mutue surrettiziamente definitive integrative. Integrative di cosa? La risposta è semplice: di diritti che oggi comunque dovrebbero essere garantiti dal Servizio sanitario nazionale e che spesso non lo sono più. Il cittadino rischia di pagare due volte per lo stesso servizio: con la fiscalità generale e con la “contribuzione” personale o collettiva. Con queste caratteristiche non si può parlare di mutue integrative bensì sostitutive. Integrativo è qualcosa che è fuori dai Lea. Ad esempio una mutua che garantisse le cure odontoiatriche sarebbe integrativa. Se deve invece garantire esami diagnostici o interventi chirurgici diventa sostitutiva.
Il Fondo sanitario in questi anni ha subito pesantissimi tagli e non è certo il ritocco di due miliardi in più in un anno che risolve il problema di un Servizio sanitario definanziato rispetto alla media europea di oltre il 30% (vedi ultimo rapporto Crea).
Il suo giornale ci informa, anche in questi giorni, dell’invecchiamento costante della maggior risorsa del Servizio sanitario nazionale: il personale sanitario. Abbiamo sempre meno professionisti e sempre più anziani. Per invertire la tendenza e garantire i servizi ai cittadini serve ben altro di un ritocco del Fondo sanitario.
Se dovesse fare nomi e cognomi di chi starebbe puntando ad un ritorno delle mutue chi metterebbe in cima alla lista?
Settori governativi, ambienti confindustriali, mondo cooperativo e alcune sigle sindacali. Un mondo variegato che converge sugli stessi interessi economici.
Tra i fattori di privatizzazione lei inserisce anche il project financing per la realizzazione di nuovi ospedali e la libera professione medica. Pensa se ne possa fare a meno, rinunciando da un lato a finanziamenti utili per la realizzazione di opere di interesse pubblico e dall’altro privando la classe medica e il cittadino di un’opzione professionale e assistenziale ormai consolidata?
Sul project financing in sanità – tecnica finanziaria che utilizzano le Regioni per la costruzione o la ristrutturazione di ospedali con la partecipazione di soci privati – e sulla sua capacità di aumentare il debito per il futuro privando il settore pubblico di risorse credo che non ci siano più dubbi. Basta vedere cosa ne ha scritto la Corte dei conti del Veneto e leggere le recenti dichiarazioni dell’assessore Saccardi della Regione Toscana (“se riuscissi a chiudere la realtà del project financing sarei contenta”).
Per quanto riguarda la libera professione dei medici dirigenti si pongono problemi di equità non secondari: ormai viene percepita come scorciatoia per ottenere prestazioni che le liste di attesa contribuiscono a dilazionare nel tempo. Ecco allora che scatta l’opzione di acquisto delle prestazioni. Questo è totalmente inaccettabile.
Per chiudere questa non nobile pagina bisogna però operare un investimento diverso sul personale medico. Teniamo comunque presente che oltre la metà dei dirigenti medici non svolge neanche un’ora in libera professione e il fenomeno è in calo. In alcuni settori specialistici il fenomeno è e resta importante.
Tra i diritti negati lei punta il dito su due aspetti, uno di cui si parla molto anche in queste settimane (vedi aborto e biotestamento) legato ai temi della bioetica, l’altro che invece emerge raramente tra i temi legati al dibattito sanitario, ciò che lei definisce come fenomeno di “violenza istituzionale” verso cittadini “fragili e inermi”. A cosa si riferisce?
I diritti legati alla bioetica sono nel nostro Paese storicamente negati. Siamo ancora a discutere come garantire l’interruzione volontaria della gravidanza a quasi quaranta anni dall’entrata in vigore della legge 194. Anche in questo caso ho trovato conferma della correttezza della mia analisi: qualche giorno fa il Comitato per i diritti umani dell’Onu ha invitato l’Italia a rimuovere gli “ostacoli” sulla legge 194 che, ambiguità e inopportunità dell’istituto dell’obiezione di coscienza a parte, resta un’ottima legge.
Diverso è il caso della pessima legge negatrice di diritti come la legge sulla procreazione assistita che, nonostante i ripetuti interventi della Corte costituzionale resta un pessimo esempio di legislazione. Sul fine vita siamo ancora – se parliamo di leggi – allo stadio zero. Solo l’emozione del caso del “Dj Fabo” ha riaperto la discussione ferma da anni. Difficilmente verrà approvata la legge sul c.d. biotestamento in discussione in Parlamento. Ricordiamo che comunque anche con questa legge il Dj Fabo sarebbe “emigrato” lo stesso in quanto il suicidio assistito e l’eutanasia non sono previsti nel disegno di legge in discussione.
Ho poi voluto dedicare un capitolo alla “violenza istituzionale” – intendendosi per tale quell’atto o quegli atti posti in essere dalle forze dell’ordine e dagli operatori sanitari verso persone loro affidate per ragioni di custodia o di cura – in quanto i numerosi casi di “dolo professionale” coperti dalle strutture o comunque talvolta tollerati hanno, in questi anni avuto un enorme risalto. Quando poi si arriva all’intervento, a volte congiunto a volte disgiunto, di forze dell’ordine e di personale sanitario il risultato è devastante. E’ necessario comprendere il fenomeno e combatterlo: non è certo il disegno di legge sulle telecamere nei luoghi di assistenza la risposta giusta.
Ma insomma stiamo veramente correndo il rischio di perdere il nostro Ssn?
Rischiamo un ridimensionamento del nostro Servizio sanitario nazionale e una sua riduzione al “pavimento” (pavimento è qualcosa che si colloca in basso) di diritti. Nei primi anni novanta ci provò l’allora ministro De Lorenzo a riattivare delle “mutue volontarie” che avrebbero permesso addirittura la mancata iscrizione al Servizio sanitario nazionale.
Oggi rischiamo invece di avere un doppio livello di prestazioni erogabili: una parte fruibili per tutti e una parte destinate a chi le può acquistare.
E’ paradossale doverlo sottolineare nei giorni in cui Donald Trump è stato sconfitto proprio sul ridimensionamento dell’Obamacare.
E’ triste constatare che un trumpismo senza Trump in salsa italica si annidi anche in alcuni settori della nostra maggioranza governativa.
C.F. – Quotidiano sanità – 2 aprile 2017