Quando dicono che il loro programma promette agli italiani di «lavorare meno lavorare tutti », i 5 stelle sembrano presentare una ricetta nuova di zecca. Forse immemori delle battaglie del ‘77 e di tutte le proposte che in nome di quell’idea i partiti di sinistra, negli anni, hanno portato nella dialettica parlamentare (senza successo).
Luigi Di Maio, Nunzia Catalfo, Davide Tripiedi, Patrizia Ciprini e Claudio Cominardi hanno presentato ieri alla Camera il programma Lavoro del Movimento, votato online da 24mila iscritti che hanno potuto — più che scegliere — dare le loro preferenze alle proposte presentate. Prima arrivata: la riduzione dell’orario e dei giorni lavorativi. «Come avviene già in Germania, in Danimarca, in Olanda», ha detto Tiziana Ciprini illustrando idee come la disincentivazione degli straordinari. «In Francia la riduzione a 35 ore è costata un miliardo, in Italia ne spendiamo 20 in tre anni per la decontribuzione che non ha creato nuovi posti di lavoro ».
Le novità arrivano però soprattutto dalle proposte sul sindacato: «Abbiamo rappresentanti di governo come Teresa Bellanova, Pierpaolo Baretta, Valeria Fedeli che vengono da lì — dice Claudio Cominardi — la nostra commissione è stracolma di sindacalisti, e invece noi diciamo no alle porte girevoli». E quindi, secondo il progetto dei 5 stelle, un sindacalista «non può passare direttamente a ruoli nei cda delle aziende o in governo o in Parlamento. Serve un tempo di decantazione, sul modello di quanto si sta facendo per i giudici. È una questione di conflitto di interessi».
Non solo: ai sindacati si contestano i finanziamenti ottenuti per caf e patronati, a quelli principali il peso eccessivo nelle contrattazioni: «Tre, quattro confederazioni hanno più voce in capitolo rispetto a tutto il resto. Una cosa che deve finire». Anche con «forme di partecipazione dei lavoratori nelle aziende» (altra ricetta non proprio nuovissima). La senatrice Nunzia Catalfo parla della necessità di staffette generazionali, che consentano di accompagnare alla pensione i sessantenni formando al loro posto dei giovani («ma dobbiamo renderlo redditizio per le aziende »). Davide Tripiedi si sofferma sull’eterno nodo dei lavori usuranti: «Un operaio non può andare in pensione come un impiegato. È illogico che un muratore stia a 67 anni su un ponteggio». E sempre sulle pensioni, una delle proposte è «un massimo contributivo di 41 anni». Il sunto politico lo fa Luigi Di Maio, ricordando la ricerca Lavoro 2025 da cui tutto è partito. (Il suo autore, il sociologo Domenico De Masi, ha raccontato ieri all’Huffington Post di essere stato chiuso per tre ore in una stanza con Grillo e Casaleggio per spiegare loro la sua visione, prima della stesura del programa da presentare in rete). «L’attuale modello sindacale non è più accettabile — dice il vicepresidente della Camera — perché come i partiti per la politica, ha deciso di non rappresentare più i lavoratori, ma i propri privilegi. Facendosi casta». E ancora: «Quando immagino il governo del Movimento sul tema del lavoro — aggiunge Di Maio — penso che prima di tutto prova ad eliminare le distorsioni di questi anni». Cita il caso Alitalia, un accordo «viziato da chi si è seduto ai tavoli delle trattative ». Chiede: «Chi finanzia i sindacati?». Promette: «Noi stiamo lavorando per buttare giù i loro privilegi come cerchiamo di fare da anni con quelli della politica. Di certo, a differenza degli altri partiti che di questi temi non parlano, non vogliamo mantenere lo status quo».
Repubblica – 21 aprile 2017