Un primo accordo nel primo semestre 2015? Allo stato attuale sono in pochi a crederci (almeno nei corridoi di Bruxelles). Il Ttip (il Transatlantic Trade and Investment Partnership, ovvero l’accordo di libero scambio in discussione da un anno e mezzo tra Usa e Ue) si rivela in alto mare.
Un’agenda molto fitta tra barriere tariffarie, non tariffarie (cioè tutte quelle normative che ostacolano il commercio tra le parti in maniera più o meno occulta) e meccanismi di risoluzione delle controversie transfrontaliere che stanno facendo storcere il naso di commissari e Stati Ue. Oltre al timore che, con le elezioni americane di “mediotermine” alle porte, a novembre Obama possa perdere la maggioranza al Senato, incrinando una volontà d’accordo molto chiara a parole ma non sempre convincente nei fatti.
«Il Ttip è la principale iniziativa economica tra le due sponde dell’Atlantico dai tempi del Piano Marshall – ha spiegato Charles Ries, ambasciatore e vice presidente della Rand Corporation (uno dei più potenti Think Tank Usa), ieri alla sededi Assolombarda a Milano per parlare proprio dell’Accordo –. È un progetto estremamente ambizioso. Tocca moltissimi settori e aspetti diversi della regolamentazione economica ed è evidente che non possiamo esere vicini a una sua chiusura. Tuttavia, il mondoècambiato e ci sono molti vantaggi reciproci da un’area di libero scambio che coinvolga due delle aree economiche più sviluppate».
Inrealtà, sembra piùun problema di metodo. Gli europei – con l’Italia in testa – dasempreinsistono per lavorare dossier per dossier, dalla farmaceutica all’auto, dall’alimentare al tessile, implementando man mano le intese raggounte. Gli Usa non cedono invecealla loro idea di unapproccio “orizzontale”, che fissi un metodo comune per tutti i comparti. «L’accordo di libero scambio Europa-Usaèauspicabileche proceda passo-passo perchè se aspettiamo che le due parti siano d’accordo su cose che sono escluse dal mandato, nonsi arriverà adalcun risultato nel breve periodo» ha spiegato il vice ministro per lo Sviluppo economico, Carlo Calenda, ricordando che le rispettive associazioni imprenditoriali europee e statunitensi hanno già raggiunto un’intesa di massima subensei importanti capitoli: chimica, automotive, farmaceutica, cosmetica, tessile e dispositivi medici. «Secondome- ha aggiunto Calenda – il primo semestre 2015 è realistico se si usa questa metodologia, altrimenti nemmeno per il primo semestre 2037». Il rischio è poi quello di arrivare senza punti fermi al 2016 e alle prossime elezioni presidenziali, con il rischio che Washington cambi indirizzo e tutto sfumi. Dunque, ha concluso Calenda, «facciamo questo interim agreement, chiudiamolo subito e mandiamolo a regime in maniera che tutti si rassicurino che dentro non ci sono cose terribili, poi sugli altri punti continueremo a negoziare, implementandoi capitoli successivi». Che non sono pochi e soprattutto controversi.
Adesempio sulle Igp, le indicazioni di origine protetta, che in Italia, Paese leader sono oltre 750 marchi e negli Usa non vengono riconosciute, favorendo quindi la pratica dell’Italian sounding (come il “parmesan”). «Sarà molto più difficile – ha detto il neocommissario designato al Commercio internazionale, Cecilia Malmstrom, ieri in audizione all’Europarlamento – includere le indicazioni geografiche protette (Igp) nell’accordo di libero scambio con gli Usa rispetto a quanto è stato possibile fare con il Canada, dove sono circa 145». Inoltre, sul cosiddetto Isds ( Investor-State Dispute Settlement), ovvero il meccanismo di risoluzione delle controversie tra investitori stranieri e Stato che consente a una qualsiasi società che investe in un Paese di sfidare il governo nazionale di quel Paese attraverso il ricorso a procedure di arbitrato internazionale, scavalcando di fatto l’ordinario sistema giudiziario, Malmstrom ha aggiunto – dopo la vicenda dell’accordo con il Canada (si veda l’articolo a fianco) – che «non sarà incluso automaticamente in quello con gli Usa. Anzi, potrebbe essere del tutto eliminato».
Nel primo semestre 2014, le esportazioni italiane verso gli Usa sono cresciute di quasi l’8% e entro fine anno si prevede supereranno i 28 miliardi di euro. È il nostro primo mercato extraUe con una quota sul nostro export del 6 per cento. Oltre l’85% dei prodotti italiani entra già negli Usa a un dazio inferiore al 10% ma proprio su abbigliamento, calzature e alimentare, le tariffe doganali sono più pesanti, tra 10 e 20 per cento. La sola politica del “dazio zero” potrebbe sviluppare 30mila nuovi posti di lavoro, per lo più nelle Pmi.
Il Sole 24 Ore – 30 settembre 2014