La microstoria di un dentista libanese cambia un pezzo di vita lavorativa di 350 mila medici e odontoiatri, 400 mila infermieri, 80 mila farmacisti, 35 mila tecnici di radiologia, 30 mila veterinari e 18 mila ostetrici italiani, perché innesca una sentenza della Corte costituzionale che rivoluziona la giustizia disciplinare e amministrativa dei camici bianchi, sancendo che il loro «giudice» speciale, per come è composto dal 1946, non è indipendente e imparziale in quanto due dei suoi membri, essendo designati dal ministero della Salute, sono di fatto la controparte del sanitario giudicato. La Consulta, con la sentenza 215 del 7 ottobre redatta dal giudice costituzionale Augusto Barbera, cancella infatti — come incompatibile con l’equo processo — quello che sino a ieri era il «giudice» d’appello dei camici bianchi rispetto alle decisioni degli Ordini territoriali dei Medici in materia di sanzioni disciplinari e di tenuta degli Albi, e cioè la «Commissione centrale per gli esercenti le professioni sanitarie».
In Corte costituzionale si era approdati perché il 15 gennaio 2015 la II sezione civile della Cassazione — ribaltando un precedente orientamento e valorizzando la giurisprudenza della Corte di Strasburgo sull’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo — aveva ritenuto di sottoporre alla Consulta la questione posta da un dentista libanese (patrocinato dal professor Bruno Nascimbene), che l’Ordine provinciale dei Medici di Milano aveva rifiutato di iscrivere all’Albo a motivo del mancato riconoscimento della trasponibilità della sua laurea in Siria.
A mettere in dubbio indipendenza e imparzialità della Commissione, osserva ora la Corte costituzionale, è che i due membri designati dal ministero della Salute (un dirigente amministrativo e uno di seconda fascia) continuino, durante lo svolgimento delle loro funzioni giurisdizionali, a rimanere incardinati come status economico e giuridico presso il ministero, che è controparte del camice bianco da essi giudicato nel processo. Addirittura i due restano soggetti disciplinarmente all’autorità governativa che li designa nella Commissione, sicché possono esserne teoricamente rimossi, e dunque non godono (loro) e non assicurano (a chi giudicano) la garanzia di essere giudici inamovibili. Inoltre l’assenza di criteri sulle competenze per selezionarli, e il fatto che la conferma o meno del mandato dipenda dall’autorità governativa, producono una eccessiva discrezionalità.
E ora che succede? Non è facile prevederlo. Intanto c’è da capire la sorte di tutti i procedimenti pendenti che, sinora congelati in attesa della Consulta, non potranno certo riprendere davanti a una Commissione la cui composizione è stata dichiarata incostituzionale. Poi forse occorrerà un intervento urgente del governo per uscire dall’impasse e ridisegnare l’assetto generale. Compito che in realtà sarebbe dovuto essere già realizzato dal legislatore, come rimarca la sentenza della Corte costituzionale su due occasioni perse: nel 2010, quando una legge delega sul riordino degli enti avrebbe dovuto riguardare anche la Commissione, e nel 2012, quando uno dei tanti «decreti-sviluppo» del Paese escluse la Commissione da quel riordino. Senza dimenticare che, come segnala ancora la Consulta, in base ai medesimi princìpi la stessa sorte demolitoria da adesso pende, anche nelle altre categorie professionali, su tutti quegli analoghi organi di giurisdizione speciale che ancora abbiano composizioni viziate nella indipendenza e imparzialità di quote di loro componenti.
Luigi Ferrarella Il Corriere della Sera – 10 ottobre 2016