La Corte di Cassazione, con la sentenza 5070, mette fuori legge la parolaccia sessista e conferma la condanna per un impiegato che, a suo dire, esaperato dalle frecciatine di una collega che lo accusava, neppure tanto velatamente, di avere brigato per ottenere un posto di maggior prestigio aveva reagito accusandola di essere sessualmente molto attiva.
“Ogni volta che si deve offendere una donna – scrivono i giudici – è immancabile il riferimento ai presunti comportamenti sessuali della stessa; qualunque sia il ceto sociale di appartenenza, qualunque sia il grado di istruzione, qualnque sia la natura della discussione l’uomo di norma non accusa la sua avversaria donna di dire il falso, di essrre un’imbrogliona, di sopravvalutarsi – tutte accuse nella specie più pertinenti all’oggetto della discussione – ma di essere una puttana o una zoccala – offese del tutto inconferenti rispetto alla contesa verbale”. Un comportamento che non solo offende la reputazione della donna, ma la pone in una condizione di “marginalità e minorità”. I giudici della V sezione penale si stupiscono che l’imputato abbia portato come argomento a sua discolpa la reciprocità delle offese, senza rendersi conto malgrado una presunta preparazione culturale della gravità della sua affermazione. Si tratta, insomma di un insulto che “pesa” di più.
La Cassazione ammette che la parte lesa si era piccata per il “sorpasso” professionale accusando il collega di aver ottenuto l’avanzamento grazie a “monovre” con il direttore. Fatto non nuovo per i giudici che considerano tali accuse ricorrenti in casi simili: “d’altronde – spiega la Corte – chi ambisce a un incarico cerca di mettere in evidenza le proprie capacità ed, in particolare, di rappresentarle a chi debba adottare la decisione; anche questa possono essere ritenute manovre poco corrette”.
Infatti sull’insulto che sarebbe appropriato in questi casi la giurisprudenza della Cassazione è ondivaga: precauzionalmente meglio definire questi colleghi “Yes man”
Il Sole 24 Ore – 1 febbraio 2013