Nei primi sei mesi del 2014 crollano le esportazioni verso la Russia e calano quelle verso Turchia e Medio Oriente Crescono solo gli Stati Uniti, ma il negoziato Ue sul libero scambio va a rilento.Roma media per risolvere lo stallo
Alessandro Barbera. Ci sono la crisi della domanda interna, l’eccesso di austerità, la mancanza di investimenti pubblici, d’accordo. Eppure delle tante ragioni della frenata dell’economia continentale poco si è detto di quel che sta accadendo fuori dell’Europa. È come sei il dibattito si concentrasse ossessivamente sulle cause endogene della crisi, sul dibattito – sterile – fra flessibilità sì o no, dimenticandosi o facendo finta di non vedere il contesto. Basta confrontare i dati sulle esportazioni italiane e tedesche degli ultimi sei mesi verso la Russia: rispettivamente -8,9 e -15 per cento. Secondo le previsioni della Commissione di Berlino che monitora i rapporti con i Paesi dell’est, entro la fine dell’anno la crisi ucraina costerà ai tedeschi un quarto di tutte le esportazioni verso la Russia e almeno cinquantamila posti di lavoro. Klaus Wohlrabe dell’istituto Ifo sostiene che la frenata dell’economia è da imputarsi «principalmente» alla crisi diplomatica con Mosca.
Nei primi sei mesi di quest’anno sono calate le esportazioni italiane verso l’Arabia saudita, la Turchia, il Brasile e gli Emirati arabi: solo queste ultime hanno perso il dieci per cento. Tengono le esportazioni cinesi, ma il vero boom lo segnano quelle verso Hong Kong – ultima frontiera occidentale dall’altra parte del globo – e gli Stati Uniti, in crescita del 7,8 per cento. L’asse dei Brics, quello che negli ultimi anni ha dato le maggiori opportunità alle imprese del Belpaese, segna il passo. La crisi in Medio oriente, la reindustrializzazione americana, il boom dello shale gas e il rafforzamento del dollaro sull’euro fa girare nuovamente la freccia degli scambi da est a ovest, rilanciando quelli verso i cosiddetti «mercati maturi». Prometeia lo scriveva a giugno in un rapporto sull’evoluzione del commercio con l’estero: «La crescita mondiale, dopo un periodo in cui era stata trainata soprattutto dai Paesi emergenti, dipenderà in futuro dalla ripresa già in corso nelle economie avanzate, in primis gli Stati Uniti».
I numeri dicono che nel corso di quest’anno le importazioni americane dal resto del mondo aumenteranno del 6,9 per cento, il 18,9 per cento nel 2015, il 10,6 per cento nel 2016. Un ritmo di crescita non troppo distante da quello che continuerà ad avere l’import cinese: +10,6 per cento quest’anno, +23,4 per cento nel 2015. Con un ma: le statistiche non tengono conto della possibile firma dell’accordo transatlantico di libero scambio fra Europa e Stati Uniti, la «Transatlantic Trade and Investment Partnership». La trattativa, iniziata da qualche mese, langue per scarsa volontà di entrambe le parti. Eppure secondo le stime di Bruxelles potrebbe valere un maggior interscambio e un aumento fino ad un punto del prodotto interno lordo dell’intero continente. Come si conviene per i grandi accordi commerciali, il negoziato è lungo: procede in alcuni campi – come quello delle barriere regolamentari – non procede per nulla in settori nei quali gli Stati Uniti sono tradizionalmente protezionisti, come quello dei servizi finanziari. Per questo la presidenza di turno italiana ha preso l’iniziativa per chiedere un sì almeno nei sei settori (chimica, auto, farmaceutica, cosmesi, tessile e dispositivi medici) nei quali è possibile una convergenza regolamentare, rinviando il resto ad un secondo round negoziale. Ma in Europa il clima attorno a questo tema non fa che peggiorare, complice il mandato a trattare dei Paesi membri alla Commissione, tuttora secretato. Ora la presidenza italiana, d’intesa con il commissario europeo al Commercio Karel De Gucht, chiede di rendere pubblico quel documento. L’assenza di informazioni sulle condizioni di un possibile accordo alimenta i peggiori sospetti. Alla Camera fioccano le interrogazioni parlamentari del Movimento Cinque Stelle su quali sarebbero le reali intenzioni: dalla liberalizzazione dei prodotti Ogm a quella dei servizi sanitari. Nel frattempo gli americani negoziano in parallelo un accordo non dissimile – la «Trans Pacific Partnership» – con altri undici Paesi dell’area del Pacifico fra cui Australia, Canada, Cile Giappone, Malesia, Messico e Nuova Zelanda. E l’Europa rischia di perdere il treno mentre discute animatamente del concetto di flessibilità.
La Stampa – 26 agosto 2014