di Franco Toniolo*, dal Mattino di Padova. Durante la prima ondata della pandemia da Covid 19 il Veneto fu unanimemente elogiato per il suo “modello sanitario”, a partire dal suo presidente Zaia, che faceva intendere di averlo sostanzialmente inventato lui. Durante la seconda ondata il Veneto si sta rivelando maglia nera delle Regioni – con numeri impressionanti di contagi e di decessi – e si dice che il suo “modello” è fallito. È così? In che cosa consiste, quando è nato il modello e perché i risultati sono così diversi?
1. Dagli albori alla “Riforma della Riforma” del 1992.
Il cosiddetto “modello veneto” dei servizi sanitari e sociali ha una lunga gestazione ed è connaturato alla cultura e tradizioni venete. È noto che gli ospedali nascono con la pubblicizzazione delle IPAB (Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza) con la riforma ospedaliera “Mariotti” del 1968. Il Veneto era ed è tuttora ricchissimo di IPAB, in virtù della presenza sociale cattolica, essendo il risultato di donazioni stratificatesi nel tempo. Però la Regione del Veneto ha subito avviato una riprogrammazione (L.r. 12/1974) dato che le IPAB e quindi gli ospedali non erano certo ben distribuite sul territorio. E molti posti letto ospedalieri furono riconvertiti in strutture territoriali di prevenzione e assistenza primaria. Sul piano organizzativo e assistenziale il Veneto (L.r. 64/1975) con i “Consorzi sociosanitari – Ulss” anticipò la Riforma sanitaria (L. 833/78) (conosciuta come la riforma del ministro Tina Anselmi ndr). La prima vera e propria programmazione viene stabilita con il “Piano sociosanitario 1982-84” (L.r. 13/84) che contestualmente definisce organizzazione e politiche sia per l’assistenza ospedaliera che per quella territoriale.
Ecco l’origine del “modello veneto”, che affonda le sue radici molto indietro nel tempo, ben prima del 2010, anno della prima Giunta Zaia. Chi erano gli attori, politici, istituzionali e sociali?
Politici. Innanzitutto la DC, ma anche l’opposizione di allora (PCI in particolare), che nel merito ha sempre attivamente sostenuto tale modello.
Istituzionali. I Comuni furono costantemente consultati, spesso con confronti aspri sulla riconversione degli ospedali, nonché le Università, con le loro eccellenze assistenziali e formative. Sociali. Le organizzazioni sindacali, il composito mondo del sociale, le professioni, furono egualmente protagoniste.
I confronti con le odierne politiche e relazioni ognuno potrà agevolmente farli.
L’abbondante produzione normativa della Regione prosegue con successivi provvedimenti a dimostrazione della costante attenzione all’adattamento dell’offerta ai nuovi bisogni di salute (più prevenzione e riabilitazione e appropriatezza della cura).
2. “Riforma bis” del 1992/93 e “Riforma ter” del 1999.
Giova ricordare che in Italia – complice la forte autonomia costituzionalmente garantita alle Regioni proprio in sanità – si sono consolidati diversi “modelli” organizzativo-gestionali. Volendo semplificare al massimo si possono ricondurre a due diverse filosofie.
La prima – quella “concorrenziale” – incentra la sua azione sulla “prestazione”, sul singolo atto, lo riconosce e remunera (il DRG). La Regione ha un ruolo più che programmatorio, regolatorio, con forte protagonismo dei gestori pubblici e privati, messi in concorrenza. L’esempio più eclatante di questa filosofia è la Lombardia. Infatti questo modello è “ospedale-centrico”, poco territoriale e ancor meno integrato.
La seconda – quella “programmatoria” – guarda maggiormente ai bisogni della persona e della collettività in modo unitario e non separabile (approccio “olistico”). Quindi sono più importanti la presa in carico, la continuità assistenziale, l’integrazione sociale-sanitaria. La Regione ha un ruolo programmatorio e vi è la preminenza del pubblico, con il privato che ha una funzione integrativa. L’esempio più eclatante di tale filosofia è il Veneto (anche l’Emilia Romagna, Toscana e altre).
Protagonista dal punto di vista politico è la nuova maggioranza regionale (1995, post DC-PSI ecc.) che opera in assoluta continuità con “l’ottimo modello ereditato”. Il Presidente resisterà alle pressioni di parte della sua stessa maggioranza (Lega e AN), che voleva adottare il “modello lombardo”.
Il primo “Piano sociosanitario 2012-16” della nuova Amministrazione (Zaia) ancora risente della vecchia impostazione e nel complesso è condivisibile: a fronte di ulteriori tagli ai posti letto ospedalieri, programma altrettanti investimenti in strutture territoriali (ospedali di comunità, hospice) e un potenziamento del territorio. Ma mentre i tagli vengono fatti, le attivazioni sono circa la metà e in forte ritardo.
La svolta si ha con la Legge regionale 19/2016 che riforma le ULSS (da 21 a 9), istituisce l’Azienda Zero – che accentra tutto – e con l’ultimo “Piano sociosanitario 2019-23”. È assolutamente evidente l’inversione di tendenza, sia nel rapporto ospedale-territorio (a discapito di quest’ultimo che subisce importanti tagli) sia nell’integrazione sociale e sanitario. Vi è poi la sostanziale privatizzazione delle RSA-Case di riposo, con un incremento del privato, ecc.
Insomma, nonostante una dichiarata volontà politica di confermare il modello veneto e il suo asse principale costituito dall’integrazione ospedale-territorio e sociale-sanitario si è operato nei fatti un avvicinamento al “modello lombardo”, respinto anni prima.
3. La pandemia.
Lo scoppio della pandemia di Covid 19 ha fermato questa deriva. Anzi il Presidente Zaia ha riscosso un forte consenso rivendicando come merito dell’ attuale maggioranza politica regionale se il Veneto, grazie al suo modello, ha retto meglio di altre Regioni (Lombardia in primis) durante la prima ondata, anche grazie al lockdown nazionale. Il problema è che invece con la seconda fase la forza residuale del modello veneto, a parole riconfermato ma operativamente indebolito, ha visto esaurire la propria capacità di risposta.
Per cui l’impatto della seconda ondata – nonostante l’impegno di alcune istituzioni, in particolare l’Università di Padova (zona rossa a Vo’Euganeo durante la prima ondata e altro) e di tutti i qualificati ed encomiabili medici e operatori sanitari – ha fatto sentire fortemente il suo impatto. Che queste non siano solo opinioni si può accertarlo guardando alle innumerevoli prese di posizione pubbliche proprio dei loro rappresentanti.
4. La maglia nera d’Italia
Nella seconda ondata il Veneto è la peggiore Regione d’Italia. Alcuni hanno tratto frettolose conclusioni, affermando che il modello veneto ha fallito, non è un modello da seguire. Una pandemia come quella in atto nessuna Regione può affrontarla se a monte c’è un sostanziale “liberi tutti”, costituito dalla zona gialla.
Paradossalmente il fatto di essere bene organizzati (i dichiarati 1000 posti letto di terapia intensiva) ha contribuito a ritenere che la pandemia si potesse gestirla. Senza entrare nelle polemiche sui dati, sono le stesse autorità regionali a dire che dai 700 effettivamente organizzabili per arrivare a 1000 si dovrebbero utilizzare tutti quelli dedicati alle sale operatorie, paralizzando così l’intero sistema che non potrebbe curare altro. Sono evidenti e non contestabili i numeri dei contagiati e dei decessi, i più alti d’Italia. Di fronte ai quali la normativa nazionale consente (consiglia…) di adottare misure più stringenti da parte dei Presidenti di Regione (non palliativi come il “giallo plus”).
Le modalità d’uso dei tamponi rapidi hanno creato ulteriori problemi. Il Veneto ne ha usati molti di più di altre regioni, e continua. L’Istituto superiore di sanità ha raccomandato che l’uso sia per screening della popolazione (esempio la scuola) e non per il personale sanitario degli ospedali, il personale e gli ospiti delle RSA per anziani, cioè in ambienti delicati e pericolosi per la diffusione del contagio. Il Veneto invece così non ha fatto e i risultati sono sotto gli occhi di tutti.
Le responsabilità non stanno nel modello veneto ma nella incoerenza delle scelte politiche e gestionali, che lo hanno indebolito.
*già Direttore Generale Sanità e Sociale