In almeno 50 paesi in giro per il mondo sono in corso ricerche e programmi di rilevazione per analizzare la diffusione del coronavirus attraverso gli impianti fognari. Questo sistema era stato esplorato da alcuni ricercatori nella primavera dello scorso anno, ma negli ultimi mesi è diventato molto più diffuso e ha offerto la possibilità di avere dati sull’andamento dei focolai e dell’epidemia, rendendo possibile l’adozione di restrizioni e altri provvedimenti per ridurre i nuovi contagi in alcuni paesi.
Il sito della rivista scientifica Nature ha stimato che dalle poche decine di progetti sulle fogne avviati nel 2020 si è passati a circa 200 iniziative negli ultimi mesi. L’aumento è diventato significativo quando sono emerse prove convincenti sulla permanenza delle particelle virali o del materiale genetico del coronavirus nelle feci, e sulla possibilità di rivelarli e di dedurre la presenza di un focolaio in una data area geografica raggiunta dai servizi fognari.
L’analisi delle acque reflue per motivi di salute pubblica non è una novità e viene utilizzata di frequente per vari scopi. In passato era stata impiegata per verificare l’efficacia delle vaccinazioni contro la poliomielite o per studiare l’abuso di antibiotici, che in alcune circostanze può portare alcuni batteri per noi nocivi a diventare più resistenti ai farmaci. In diversi paesi le acque fognarie sono periodicamente analizzate per quantificare l’impiego delle sostanze stupefacenti tra la popolazione, per identificare le aree geografiche dove il loro consumo è più marcato.
Nel caso dell’attuale coronavirus, l’estensione delle analisi e gli scopi con cui sono portate avanti varia enormemente a seconda dei paesi. In alcuni casi il fine è prettamente di ricerca, per esempio per capire quanto materiale del coronavirus sia espulso con le feci dai positivi, mentre in altre circostanze lo scopo è provare a prevenire il più possibile nuovi focolai di COVID-19.
In Italia da luglio dello scorso anno è attivo un progetto coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità per la sorveglianza epidemiologica del coronavirus attraverso le acque reflue urbane (SARI, Sorveglianza Ambientale Reflue in Italia). L’iniziativa era partita con una prima fase dedicata alle località turistiche, visto il periodo estivo nel quale era stata avviata, e in seguito ha raccolto l’adesione di diverse strutture territoriali come le ASL, le agenzie per la protezione dell’ambiente (ARPA), le università e altri centri di ricerca. In molti casi gli accordi hanno interessato i gestori della fornitura idrica nelle città, che si occupano di prelevare i campioni e di fornirli ai laboratori per le analisi.
Un gruppo di lavoro dell’ISS all’inizio di quest’anno ha ulteriormente affinato i sistemi di analisi, riuscendo a rilevare le cosiddette “variante inglese” e “variante brasiliana” nelle acque reflue di Perugia e di alcuni centri abitati in Abruzzo. La presenza delle varianti è stata riscontrata conducendo le analisi in aree geografiche dove erano stati rilevati casi tramite i test tradizionali con tampone. Il risultato è importante perché dimostra la possibilità di stimare la diffusione non solo del coronavirus in generale, ma di alcune specifiche sue varianti in una determinata area geografica.