di Filippo Tosatto. Un inquinamento senza precedenti nel Veneto, sia per vastità territoriale che per livelli di contaminazione delle falde idriche. E 250 mila persone, concentrate nel Vicentino, che per dieci anni hanno bevuto e utilizzato l’acqua intrisa di sostanze perfluoro cloridriche (Pfas) provenienti dagli scarichi di lavorazione dell’industria chimica. I test del sangue, disposti dalla Regione su un campione di 507 residenti, hanno confermato i peggiori sospetti, rivelando percentuali di Pfas anomale, fino a sei volte superiori alla norma.
I picchi riguardano sette comuni – Montecchio Maggiore, Brendola, Lonigo, Creazzo, Altavilla, Sovizzo, Sarego – dove i prelievi ematici hanno evidenziato, soprattutto nella popolazione maschile, medie di 70-80 nanogrammi di sostanza inquinante per grammo a fronte dell’1-1,5 fisiologico. Altrove la situazione è meno inquietante (ma i valori, nell’ordine dei 14 ng, restano a livello di guardia) mentre i monitoraggi compiuti a Carmignano di Brenta, Fontaniva, Treviso e Resana hanno avuto esito completamente negativo e sono valsi come dato di raffronto. Dal 2014 l’acquedotto che serve la zona è stato messo in sicurezza e nella “zona rossa” vige il divieto di attingere a pozzi privati per irrigazione, allevamenti di bestiame e animali domestici.
Ma qual è il pericolo concreto per la salute? «I Pfas sono persistenti, bioaccumulabili e molto tossici», afferma Loredana Musmeci, dell’Istituto superiore della sanità, «entrano nel sangue, nel fegato, nei reni, e possono danneggiare la tiroide e l’apparato renale. Rischi cancerogeni? In teoria le sostanze perfluoro cloridriche rientrano nella classe 2 B, quella dei “possibili” agenti tumorali. In pratica, però, gli esami condotti non hanno riscontrato alcuna influenza delle Pfas nell’insorgenza di neoplasie».
La sanità veneta – il cui direttore generale, Domenico Mantoan di Brendola, figura ahilui tra i soggetti più esposti («La mia quota Pfas nel sangue arriva a quota 250 ng… ») – si è rivolta all’Organizzazione mondiale della sanità (che ha un ufficio operativo a Venezia) e all’Iss, mettendo a punto un piano pluriennale di monitoraggio epidemiologico e osservazione. Nel concreto, i 250 mila soggetti che vivono nell’area a rischio, saranno sottoposti ogni anno ad una batteria di esami del sangue per testare gli enzimi del fegato, la funzionalità renale e reagire ad alcuni marker tumorali. Tutto ciò durerà 5-10 e sarà accompagnato dal controllo clinico (gratuito al pari dei test) delle persone più esposte. Non basta. La mina vagante è costituita dalle acque inquinate nel sottosuolo che si muovono e, in assenza di interventi, potrebbero raggiungere il Polesine. Perciò il governatore Luca Zaia – sollecitato in tal senso dal Consiglio regionale – è orientato a chiedere al Governo la dichiarazione di Sin (Sito di interesse nazionale) per il territorio vicentino da bonificare, secondo modalità analoghe a quelle adottate per le zone avvelenate di Porto Marghera.
Sul fronte politico, si susseguono le polemiche. «La popolazione non va tranquillizzata ma garantita, troppi interrogativi attendono risposta, la Regione chieda i danni ai responsabili di questo disastro», afferma il consigliere del Pd Andrea Zanoni. «Quando abbiamo denunciato in aula la gravità del caso Pfas, l’assessore all’Ambiente, Gianpaolo Bottacin, ha minacciato di denunciarci per procurato allarme», fa sapere Jacopo Berti capogruppo del M5S «ora smetta di giocare con le carte bollate, si vergogni»
Il Mattino di Padova – 22 aprile 2016