Costituzionalità, fattibilità e spesa. Sono i tre carichi che il Consiglio di Stato mette nel suo parere sulla riforma della dirigenza pubblica. Il parere, va chiarito, è «positivo», ma è accompagnato da una lunga serie di «condizioni indefettibili» che vanno appunto al cuore delle tre questioni elencate all’inizio.
Sulla costituzionalità, lo snodo è rappresentato dal rapporto fra dirigenti pubblici e politica, e dall’esigenza di assicurare ai primi un’autonomia che ai giudici amministrativi sembra messa a rischio dall’impianto della riforma. In gioco ci sono i principi di «imparzialità» e «buon andamento» dell’amministrazione (articolo 97 Costituzione). Per garantirli, argomentano i giudici amministrativi nelle 99 pagine del parere, il nuovo sistema del ruolo unico e degli incarichi a tempo deve essere modificato in più di un elemento strutturale. Prima di tutto, i criteri con cui le amministrazioni sono chiamate a scegliere i loro dirigenti devono essere «oggettivi e trasparenti», e per realizzare questa condizione serve un «sistema efficace di valutazione». La sua è in effetti l’assenza più evidente nel decreto: il governo ha lavorato a un ricco insieme di indicatori, ma nelle vorticose giornate agostane che hanno portato al primo via libera al decreto si è deciso in extremis di rimandare la questione al nuovo Testo unico del pubblico impiego. Quest’altro capitolo cruciale della riforma Madia è atteso al primo passaggio e non arriverà in Gazzetta Ufficiale prima di luglio, per cui i giudici amministrativi chiedono di regolare puntualmente la fase transitoria, accompagnandola con un crono-programma esplicito e una fase di sperimentazione. A scaldare l’agosto del decreto, si ricorderà, è stata in particolare la forte opposizione degli attuali dirigenti di prima fascia, sfociata nella riserva di almeno il 30% delle posizioni dirigenziali generali che saranno banditi dalle loro amministrazioni. Sul punto, il parere suggerisce di prevedere una riserva fissa, e di alzarla al 50% con una scelta che in ogni caso impedirebbe alle amministrazioni di dedicare agli uscenti una quota più alta (ipotesi possibile nel testo attuale). L’altra soglia al centro delle polemiche è quella che alza la parte accessoria almeno al 50% della retribuzione complessiva, e che secondo il Consiglio di Stato rischia di essere viziata da eccesso di delega.
Tornando alle garanzie, i giudici insistono sull’esigenza di assicurare «una durata ragionevole dell’incarico», che altrimenti finisce per dipendere dalla discrezionalità della politica. Tradotto in pratica, il parere suggerisce che, se non c’è una valutazione negativa del dirigente, il mancato rinnovo del suo incarico possa essere deciso solo con un provvedimento motivato, da adottare al termine «di un procedimento amministrativo che assicuri il rispetto delle regole del contraddittorio». Anche perché, in alternativa, è facile prevedere che il meccanismo sia travolto da una valanga di ricorsi. Per la chiusura anticipata dell’incarico, invece, dovrebbe servire «il rigoroso accertamento della responsabilità dirigenziale». Su questo delicato equilibrio di interessi dovrebbe vigilare un «organismo di garanzia» che non può essere individuato solo nella commissione nazionale chiamata a gestire i ruoli unici.
La commissione nazionale, composta dai presidenti di Anac e Crui oltre che dai segretari generali di Interno ed Esteri, Ragioniere generale e due esperti indipendenti, è solo uno degli aspetti che impattano sulla «fattibilità» della riforma, a rischio secondo i giudici. Tra gli aspetti più critici c’è l’obbligo di attuarla senza aumentare la spesa, obiettivo che sembra irraggiungibile vista la complessità dei meccanismi da mettere in moto.
Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore – 16 ottobre 2016