Si devono attivare piani nazionali che definiscano fin dall’inizio le risorse necessarie e il loro utilizzo. All’appello della legge di stabilità, le politiche sociali risultano assenti. Il testo del Governo, infatti, contiene poche risorse e nessuno dei necessari interventi migliorativi. Ciò è accaduto perché il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, non ha sinora rivolto lo sguardo verso famiglie in povertà, anziani non autosufficienti, persone con disabilità e bambini nei nidi, cioè i principali destinatari delle politiche sociali.
Lo stanziamento complessivo previsto nel 2015 per i due fondi nazionali principali ammonta a 700 milioni di euro (300 del Fondo nazionale politiche sociali e 400 del Fondo non autosufficienze), cifra che rappresenta un leggero incremento rispetto ai 667 milioni del 2014, ma una netta discesa dai 970 del 2008, che già allora tutti gli esperti giudicarono inadeguati ad affrontare lo storico sottofinanziamento delle politiche sociali.
Ciononostante, a partire dal 2009 il governo Berlusconi ridusse i fondi statali, sino ad azzerarli nel 2012, poiché era contrario alla responsabilità pubblica nei confronti delle persone fragili. Nel 2013 è cominciata la parziale risalita fino agli attuali 700 milioni, ma nel frattempo la debolezza del settore si è ulteriormente accentuata. Oggi, per esempio, la spesa pubblica dedicata alla lotta contro la povertà risulta in Italia inferiore dell’80% alla media europea e quella nei servizi per le persone non autosufficienti (disabilità e anziani) lo è del 40 per cento.
Il nocciolo della questione, comunque, non è l’esiguo importo dei fondi nazionali, bensì l’eredità della Seconda Repubblica. I fondi, infatti, furono allora introdotti intendendoli dichiaratamente come i primi mattoni sui quali costruire quelle riforme nazionali attuate perlopiù negli ultimi vent’anni, e a volte anche prima, in tutti i Paesi simili al nostro. In Italia, invece, se n’è discusso a lungo, qualche passo iniziale è stato appunto compiuto, ma – come avvenuto solo in Grecia – nessuna riforma è stata realizzata.
Si tratti di povertà, non autosufficienza o asili,l’impianto degli interventi è ovunque il medesimo. Primo, lo Stato incrementa i propri stanziamenti definendoli a partire non dai fondi dell’anno precedente, ma dalle reali esigenze del settore, affiancandoli a regole che assicurino l’adeguato sforzo finanziario di Regioni e Comuni. Secondo, per chi è in condizioni di fragilità s’introduce il diritto a ricevere risposte, oggi esistente in altri ambiti – come la sanità e l’istruzione – ma non nel sociale. In Italia, per esempio, i nuclei che vivono in povertà non hanno diritto ad alcun sostegno pubblico. Terzo, uno sforzo particolare viene dedicato a potenziare i servizi alla persona (come assistenza domiciliare per gli anziani, nidi per i bambini o servizi sociali per gli indigenti e così via) a fianco dei contributi economici, ora nettamente prevalenti. I servizi, infatti, mettono le persone in grado di organizzare diversamente la propria vita, mentre le erogazioni monetarie servono esclusivamente a “tamponare” i bisogni.
Le riforme debbono essere introdotte gradualmente, così da spalmare su più anni lo sforzo organizzativo e l’incremento di spesa che richiedono. Si tratta, dunque, di attivare piani nazionali che permettano di giungervi grazie a percorsi pluriennali che definiscano con chiarezza, sin dall’inizio, i finanziamenti e il punto di arrivo. Dell’avvio di simili percorsi non vi è, però, traccia nella legge di stabilità né in altri atti del Governo.
All’estero le riforme nazionali sono state introdotte, perché – lì come in Italia – le domande sociali crescono da tempo, ma gli enti locali non hanno le risorse e gli strumenti adeguati per rispondervi, dato che le loro funzioni sono state disegnate in un’epoca precedente, quando tali domande erano assai minori. Negli ultimi due decenni, intanto, l’incremento dei bisogni ha subìto un’ulteriore accelerazione, basti pensare alla povertà e all’invecchiamento della popolazione. Le riforme nazionali, dunque, risultano oggi più necessarie che mai.
Quanto scritto sin qui è da contestualizzare nelle complessive vicende dei primi mesi del nuovo Esecutivo. Quest’ultimo ha concentrato i suoi sforzi iniziali sulla nostra profonda crisi economica e occupazionale, unanimemente riconosciuta come la priorità da affrontare. Coerentemente, nel welfare l’azione è stata rivolta principalmente al rafforzamento delle tutele contro la disoccupazione. In un quadro simile, i margini per un’attenzione sostanziale alle politiche sociali sono stati finora molto ristretti.
Nel prossimo futuro, però, il Governo dovrà definire la propria posizione verso il settore. Se vorrà occuparsene in modo incisivo, la strada è segnata: il punto non è destinare 100 milioni in più o in meno ai fondi, ma mettere in agenda le riforme nazionali.
Il Sole 24 Ore – 10 novembre 2014