Come nel 1994, Bossi cavalca la protezione degli interessi dei lavoratori-elettori
Roma ladrona vuole i soldi dei lavoratori del Nord per tenere viva la vecchia pratica assistenzialista. Ad ogni giro ritornano, come nel gioco della roulette…», disse una sera all’Ansa Umberto Bossi, correva l’anno 2003. La riforma Maroni (2004) doveva ancora venire. Nove anni prima, nel ’94, il Carroccio ruppe con Berlusconi proprio sulle pensioni. Le barricate leghiste sono dunque un marchio di fabbrica. Soprattutto su quelle di anzianità, tipiche del lavoro dipendente nel settore privato, diffusissimo nelle province industriali del Nord, dove migliaia di lavoratori sono entrati in fabbrica a 18-20 anni e vorrebbero continuare a pensionarsi a 58-59, dopo 40 di contributi.
Più ancora del tam tam politico è la geografia a spiegare l’ultima trincea leghista. L’Italia previdenziale è spaccata come una mela: pensioni di anzianità al Nord, con il 65% degli assegni Inps che si concentrano tra Piemonte (100 assegni ogni 1000 abitanti), Emilia Romagna (92), Lombardia (91) e Veneto (80); invalidità e assegni sociali al Sud. Di qui la battaglia a difesa di una rappresentanza sempre più nervo scoperto: una riforma previdenziale come vorrebbe Bruxelles colpirebbe quell’esercito di lavoratori padani ormai vicini all’età di uscita dal lavoro, che si vedrebbe imporre i tempi supplementari.
L’attuale crisi del Carroccio ha caratteri più profondi della faida interna «maroniani-cerchiati» proprio perché coinvolge quel blocco sociale che nel ciclo 2008- 2010 lo ha gonfiato di voti come nei primi Anni 90 dello strappo pensionistico, usandolo come taxi per denunciare il male del Nord. Per il politologo Roberto Biorcio, infatti, «la crisi economica ha colpito duramente quel bacino interclassista fatto di partite Iva e lavoro dipendente, operai, professionisti e ceto impiegatizio tipicamente nordista che imputa ad un governo a trazione leghista la scarsa protezione nella tempesta e un vuoto di riformismo».
Per capire il cortocircuito di queste ore bisogna tornare ai tre cicli elettorali leghisti. La prima ondata culmina nel ’92, quando il partito di Bossi diventa il secondo nel Nord raccogliendo il 17,3% di consensi (8,7% nazionale con 3,4 milioni di voti). La seconda si registra nel ’96: 10,1% nazionale con 3,7 milioni di italiani che salgono sul Carroccio, record storico. Un pieno che si sgonfierà subito: la corsa solitaria lo lascia ai margini del gioco politico e l’ingresso dell’Italia in Europa azzera le ragioni economiche della secessione. Non a caso al voto 2001 il Carroccio lascia per strada 2,3 milioni di consensi: 3,9% nazionale.
Rispetto al ’96 crolla la preferenza operaia (dal 17 al 9% dell’intero elettorato verde), di artigiani e commercianti (dal 23 all’8%) e di impiegati e insegnanti (dal 30 al 10%), finiti tutti nell’orbita patinata del Cavaliere. La terza ondata è invece quella scoccata col voto 2008, quando la Lega passa da 1,7 milioni di consensi 2006 (4,3%) a 3 (8,3%), con il voto di imprenditori e professionisti che cresce dal 7 al 12% dell’elettorato, sdoganando il partito di Bossi nel voto di opinione dei centri urbani, quello dei lavoratori dipendenti dall’8 al 19%, degli operai dall’8 all’11% e di artigiani e commercianti dall’15 al 20%.
Cos’è successo nel biennio da giustificare un exploit che esonda dai bastioni pedemontani per mietere successi sulla via Emilia? Il Carroccio cavalca la faccia brutta della globalizzazione: l’a n-ti islamismo e il vade retro immigrazione, la protezione della «roba» contro l’invasione cinese, le critiche alla finanza apolide. L’innesco della crisi mondiale spinge il blocco dei produttori sulla stessa barca, padroncini e salariati che rischiano di impoverirsi.
In questo frangente la Lega cresce nei territori tipici di piccola impresa ma anche nei quartieri operai delle grandi città (rubando voti a sinistra). Nel ciclo elettorale 2009-2010 consolida questa ondata, saldando dimensione economica e sociale di cui le pensioni sono uno dei simboli: imprenditori e professionisti salgono dal 12 al 14% dell’elettorato, gli operai dall’Il al 14%, impiegati e insegnanti dal 19 al 25%.
Poi il giochino si rompe. Già alle Regionali 2010 la fine dell’espansione viene nascosta dalla vittoria in Piemonte e Veneto e dall’effetto cestino sui voti Pdl. Alle amministrative 2011 viene meno anche questa finzione. Il Carroccio nelle sue capitali rivince ma crolla: alle provinciali a Treviso passa da 190 mila voti del 2010 a 98 mila! Tenere insieme promesse e risultati è impossibile nella grande crisi. Specie se i più colpiti sono proprio quei settori come legno-arredo, tessile, macchinari e apparecchiature elettriche tipici delle grandi province manifatturiere dove la Lega spopola.
Se aggiungiamo i comuni strozzati dai tagli proprio mentre il Carroccio ne governa quasi 400, le tasse che aumentano e i redditi scivolati al livello del 1999, si capisce come i miasmi leghisti siano anche figli del modo in cui il Nord resta impigliato nella crisi. Enfatizzando la crisi di rappresentanza.
La Stampa – 25 ottobre 2011