di Giovanni Valotti dal Sole 24 Ore. Alla fine di questa settimana si alzerà il sipario sulla riforma della pubblica amministrazione del governo Renzi. Sarà la quarta riforma degli ultimi vent’anni, all’interno di un ciclo aperto da Sabino Cassese e poi proseguito con i ministri Bassanini e Brunetta. I 44 punti annunciati nella lettera del premier e del ministro Madia fanno intravedere una strada ambiziosa. Il successo della procedura di consultazione pubblica attivata, con migliaia di segnalazioni e proposte ricevute, testimonia una grande aspettativa di cambiamento reale.
La legittimazione politica del governo, conquistata grazie al risultato ottenuto nelle elezioni europee, rappresenta un’altra importante condizione per provare a cambiare davvero le cose, o meglio – come scritto da Matteo Renzi e Marianna Madia nella lettera ai dipendenti pubblici – per «fare sul serio».
Sarà, probabilmente, una riforma a doppia velocità. Alcuni provvedimenti di immediata applicazione daranno il segno di un cambiamento possibile e concreto, un disegno di legge delega di più ampio respiro getterà le basi della pubblica amministrazione del futuro. Sui primi si scateneranno presumibilmente reazioni contrastanti, legate al quadro degli interessi, differenti e particolari, in gioco. Ma è sul secondo che si ripongono le aspettative per un definitivo salto di qualità.
Sarà capace questo governo di mettere in campo una visione di ampio respiro e che detti una chiara linea strategica di trasformazione di apparati tanto radicati quanto resistenti al cambiamento? Questo si aspettano i cittadini e le imprese, ma questo attendono anche i dipendenti pubblici, almeno quello bravi e troppo spesso bistrattati.
L’auspicio è che si realizzi un deciso cambio di passo, sbloccando un settore prigioniero di tradizioni e interessi corporativi, liberando le energie migliori in esso operanti e rendendolo attrattivo per le migliori professionalità operanti nel mercato del lavoro.
La nuova burocrazia: venerdì il Cdm Per fare questo e per dare credibilità alla riforma serve discontinuità, qualcosa che segni la fine di un’era e decreti l’inizio di un nuovo modo di pensare la pubblica amministrazione.
Da questo punto di vista ben venga l’enfasi posta dal governo sulle persone, è solo con queste che si cambiano le organizzazioni.
Si abbia però il coraggio di andare fino in fondo, decretando la fine del sistema di pubblico impiego. Tutele e garanzie che forse avevano senso in passato, male si conciliano, infatti, con i tempi moderni e il ruolo qualificato che dovrebbe giocare la pubblica amministrazione. Si privatizzi, quindi, nel concreto, il rapporto di impiego.
Si diano ai dipendenti pubblici gli stessi diritti e le stesse tutele di chi lavora in altri settori, così come si comincino finalmente a premiare le competenze e i meriti, piuttosto che la vicinanza politica o la normale diligenza.
Per fare questo è necessaria una rivoluzione nei sistemi di reclutamento e selezione.
Si abbandonino i concorsi pubblici vecchia maniera, tutto nozionismo e formalità, in favore di moderne tecniche e modalità di selezione in grado di valutare capacità, attitudini, potenziale e risultati conseguiti dalle persone. Il che darebbe molte più garanzie rispetto a influenze di ordine politico o a raccomandazioni di qualunque natura.
Si trasferisca al dipendente pubblico il senso di responsabilità vera sui risultati da conseguire e sui comportamenti da tenere. Si riveda, quindi, la disciplina della responsabilità, sostituendo all’incubo del danno erariale l’orgoglio di produrre output di qualità e con esso il rischio e le ansie connesse ai possibili fallimenti, licenziamenti compresi.
Si colleghi il destino dei dipendenti a quello delle organizzazioni in cui operano. Ben venga da questo punto di vista l’input del governo di collegare i sistemi premianti agli outcome, ovvero agli impatti finali delle politiche e agli andamenti delle amministrazioni. Se le cose vanno bene giusto riconoscere i meriti di tutti, ma se le cose vanno male ingiusto e irrazionale premiare chiunque.
Si promuova la flessibilità di impiego e si colleghino i percorsi di carriera alla mobilità, come del resto avviene in molti altri settori, in modo da favorire al tempo stesso recuperi di efficienza e percorsi di crescita delle persone.
Si investa, pesantemente, nel rinnovamento delle competenze. Diverse e rilevanti eccellenze professionali presenti nel settore pubblico non compensano, infatti, una qualità media degli organici inadeguata alle funzioni da svolgere e ai problemi da affrontare. Percorsi di riqualificazione professionale, combinati con la capacità di gestire in modo intelligente il turnover fisiologico immettendo nelle amministrazioni giovani capaci e motivati, possono nell’arco di pochi anni cambiare il volto e la capacità operativa della pubblica amministrazione.
Non da ultimo, si abbia particolare attenzione nelle nuove immissioni e nei percorsi di crescita interna, a valorizzare le persone con un forte senso etico e delle istituzioni, perché su questo, più che su complicate normative anticorruzione, si basa l’integrità dell’intervento pubblico nei Paesi migliori.
Infine, si costruiscano per le persone ambienti di lavoro adeguati a esprimere le proprie capacità, superando definitivamente formalismi, arcaiche concezioni burocratiche, procedure ingessate ed eccessi di gerarchia.
Tutto questo si può fare con un disegno di legge e un decreto? Sicuramente no. Ma la direzione di marcia che verrà indicata di certo determinerà gli esiti e l’impatto delle fasi attuative successive.
Il Sole 24 Ore – 9 giugno 2014